La Fed ha già le mani legate sui tassi

«L'economia rallenta, spazio solo per aumenti graduali»

Rodolfo PariettiAd appena un mese dal rialzo dei tassi, il primo dopo nove anni di allentamento della politica monetaria, la Federal Reserve sembra già recitare il «mea culpa». Non in modo esplicito, perché l'ammissione di aver sbagliato il timing avrebbe un impatto devastante sulla credibilità dell'istituto guidato da Janet Yallen. Eppure, che le cose non siano andate come la Fed aveva prefigurato in dicembre, dopo un'interminabile meditazione sull'opportunità di varare la mini-stretta, si capisce dal comunicato diffuso nella serata di ieri e dalla reazione di Wall Street (-0,80% a un'ora dalla chiusura).Per cominciare, c'è la decisione di mantenere invariato il costo del denaro tra 0,25 e 0,50%. Non una sorpresa, visto che le più recenti indicazioni arrivate dai Fed Funds avevano già spostato nei mesi a venire le probabilità di un nuovo intervento. Sorprende, semmai, quel riferimento al «rallentamento alla fine dello scorso anno» dell'economia Usa, nonostante gli ultimi indicatori segnalino «un ulteriore miglioramento del mercato del lavoro». Ciò pone Eccles Building nella forzata condizione di poter procedere solo con aggiustamenti graduali dei tassi, che è «probabile rimangano, per un po' di tempo, al di sotto dei livelli che si ritiene prevarranno nel lungo termine». Vale a dire, vengono meno le aspettative - emerse a chiare lettere nelle minute di dicembre del Fomc (il braccio operativo in materia di politica monetaria) - di aumentare quattro volte il costo del denaro quest'anno. «Sarebbe già un miracolo se la Fed riuscisse ad alzarlo due volte quest'anno - sintetizza Arnaud Masset di Swissquite Europe - ; le probabilità di un ritocco a marzo ora si attestano attorno al 30%, ciò significa che è più probabile un secondo intervento a giugno (probabilità pari grossomodo al 50%)».Bene: forse la situazione non era già abbastanza delicata il mese scorso, al punto da giustificare un differimento del giro di vite? Non risultava abbastanza chiaro che quell'inflazione lontana dal target del 2%, e destinata a «restare bassa nel breve periodo», aveva qualcosa di strutturale, non essendo solo correlata alla picchiata del prezzo del petrolio? Eppure, anche ieri, la Fed ne parla come di un fenomeno che sarà assorbito «una volta svaniti gli effetti transitori dei cali dei prezzi dell'energia e delle importazioni». Non è, forse, che i prezzi freddi siano anche conseguenza di un'economia in «crescita moderata come la spesa delle famiglie e gli investimenti fissi», e alle prese con una frenata delle esportazioni e delle scorte?Un andamento complessivo certo non soddisfacente che dimostra come le turbolenze mondiali stiano in parte impattando anche sull'economia statunitense. La Fed sta «monitorando da vicino gli sviluppi economici e finanziari globali, valutando le loro implicazioni per il mercato del lavoro e dell'inflazione, e per i rischi all'outlook».

Una frase senza nessun tipo di enfasi, proprio per non rivelare il grado di preoccupazione. Nei prossimi due mesi, quanti ne separano dalla prossima riunione, ci sarà il tempo per valutare la situazione. E, se sarà il caso, per ingranare la retromarcia sui tassi.

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