«Se inflazione e disoccupazione continueranno a evolversi secondo le nostre aspettative, un rialzo dei tassi a marzo sarebbe probabilmente appropriato». È una Janet Yellen molto abbottonata sul tema del costo del denaro, quella che ieri sera si è presentata all'Executives Club of Chicago. Un po' troppo dubitativa, la presidente della Federal Reserve, soprattutto alla luce di quel 90% di probabilità che i Fed Funds accreditano ormai alla stretta, dandola ormai per scontata. E tanta prudenza lessicale stride se paragonata a tutti gli interventi da falco, almeno sei negli ultimi giorni, che hanno visto alternarsi vari governatori della banca centrale Usa: tutti a favore di un restringimento delle maglie monetarie.
Lei, invece, sembra voler far di tutto per apparire ancora incerta. Come a voler lasciare aperta l'opzione di un nulla di fatto che sarebbe alquanto sorprendente per i mercati. Ma che troverebbe assolutamente d'accordo il presidente della Fed di St. Louis, James Bullard: «Le condizioni economiche - ha detto ieri - non sono cambiate da gennaio per giustificare un rialzo dei tassi a marzo. È più probabile che l'aumento venga deciso in maggio». Parole che ripropongono quello schema fatto di contrapposizioni all'interno del board che sembrava ormai abbandonato. I possibili fronti di divisione possono essere due: una diversa visione delle prospettive economiche; e una valutazione non unanime sull'impatto delle politiche di Donald Trump. Ieri la Yellen ha ribadito che l'economia ha raggiunto «essenzialmente» i nostri target. Ovvero, una situazione di quasi piena occupazione (il tasso dei senza lavoro è al 4,8%) e un'inflazione ormai a un soffio dal target del 2%. Eppure, a fronte di un mercato del lavoro che sembra solido, è la dinamica dei salari, la cui crescita è insoddisfacente, che forse preoccupa ancora la Fed. Inoltre, qualche analista teme che dai dati di venerdì prossimo sui nuovi posti di lavoro creati in febbraio possa arrivare qualche sorpresa sgradita. Una cifra nettamente inferiore alle stime (190mila new jobs), è la tesi, potrebbe indurre la banca centrale americana a tenere le mani lontane dalla leva dei tassi. Quanto all'inflazione, l'1,9% del mese scorso è imputabile al rincaro dei prezzi energetici. Un fattore che potrebbe rivelarsi temporaneo, come peraltro va spiegando da tempo il numero uno della Bce, Mario Draghi, per giustificare il mantenimento del quantitative easing nell'eurozona.
C'è poi il capitolo legato al nuovo presidente Usa. C'è «molta incertezza» nelle politiche economiche di Trump, ha osservato la presidente della Fed, che «aspetta e osserva» in che modo si evolveranno nei prossimi mesi. È evidente che ciò complica i piani di Eccles Building proprio nella calibrazione delle tre strette previste quest'anno.
Ma il giudizio sul tycoon, di fatto, è già negativo: «Il debito Usa è insostenibile sul lungo periodo», ha detto la Yellen. E chi, come Trump, punta sullo sviluppo economico facendo leva sul disavanzo non può che aggravare la situazione.
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