La Fed che ha paura fa paura alle Borse. Il gioco di parole è elementare, ma rende bene l'idea del motivo per cui ieri nelle Borse è scattata la corsa a vendere, dopo che giovedì sera la banca centrale Usa non ha toccato i tassi. A spaventare gli investitori, i cui timori sono plasticamente rappresentati dai 140 miliardi di euro bruciati dall'Europa (-2,65% Milano, al tappeto Francoforte con un -3,17%) e dal vacillare di Wall Street (-1,8% alle 20 ora italiana), il fatto che il bottone «hike» non è stato pigiato a causa delle turbolenze che hanno investito la Cina e si sono poi propagate nei Paesi emergenti. Legare a fattori esogeni il mancato rialzo, peraltro giustificato dai fondamentali Usa (almeno a dar retta a Janet Yellen), equivale non solo a riconoscere di non poter più determinare gli eventi, come ci si aspetta dalla «banca centrale del mondo», ma neppure di poterli governare. Anzi, di subirli dopo aver gestito oltretutto in modo maldestro la comunicazione nelle settimane che hanno preceduto una riunione del Fomc più attesa del Super Bowl. Che cosa ha determinato la quasi perfetta convergenza del board nel decidere di non alzare il costo del denaro, quando invece fino a pochi giorni fa le spaccature fra falchi e colombe erano tanto evidenti da lasciare intendere un finale di partita molto più aperto?
La Fed ha così finito per rivelare una vulnerabilità che ai mercati non può piacere essendo del tutto inedita, se solo si riflette sulla capacità di reazione manifestata durante la crisi subprime culminata con il crac di Lehman Brothers. È come se agli investitori fosse stato sottratto il sestante per la navigazione. E una rotta a vista non è mai agevole. Soprattutto se dovrà essere verosimilmente mantenuta anche nei prossimi mesi. Al di là delle parole della numero uno di Eccles Building, le probabilità di una mini-stretta in ottobre sono scarse, se non proprio nulle. Tanto per cominciare, il vertice del mese prossimo non sarà accompagnato dalla conferenza stampa che abitualmente Washington usa per spiegare ai mercati le proprie scelte. Poi, considerato che la bassa inflazione è l'altro elemento che ha indotto la Fed a non prendere rischi, pare difficile che si scelga di rafforzare ulteriormente il dollaro con un rialzo dei tassi quando i prezzi delle materie prime sono ancora tanto bassi. Inoltre, un improvviso cambio di registro monetario potrebbe essere legittimato solo da un'altrettanto improvvisa resurrezione dell'economia cinese, al momento non alle viste.
Un editoriale dell'agenzia Xinhua sottolineava ieri che il mantenimento dei tassi Usa tra 0 e 0,25% è «un temporaneo sollievo», a segnalare che ben altro sarebbe necessario.
Non è escluso che la Fed non lo faccia. Perchè l'impasse di ieri si presta anche a un'altra chiave di lettura: preparare il terreno a nuovi stimoli (un Qe4 nel 2016?) per sostenere un'economia - quella americana - che ha ancora bisogno di una stampella.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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