Gian Maria De Francesco
L'Italia, nonostante la ripresa parziale in atto, non è ancora definitivamente fuori dal tunnel della crisi. L'analisi del Centro studi di Confindustria (Csc) sugli scenari del comparto industriale, presentata ieri, ha confermato che le ferite della grande recessione sono ancora di là dal potersi considerare completamente rimarginate. In particolare, il livello del Pil nel secondo trimestre del 2017 è risultato inferiore dell'1,8% rispetto al secondo del 2011, picco precedente, e del 6,4% rispetto al primo trimestre 2008, massimo pre-crisi. Se la crescita economica italiana si assestasse ai ritmi attuali, occorrerebbe attendere la fine del 2021 per recuperare il gap accumulato.
La produzione industriale, inoltre, appare ancora più distante dai massimi del 2008 (-18,4%) e in alcuni settori manifatturieri ha continuato a diminuire fino a tutto il terzo trimestre 2017 nonostante il contesto più favorevole. Anche se la variazione media trimestrale dell'indicatore nell'ultimo anno ha raggiunto l'1,1%, la piena chiusura del divario è attesa nel 2022 se proseguirà questo andamento.
Le preoccupazioni divengono ancor più condivisibili se si osserva che tra l'autunno 2007 e l'inverno 2015 l'occupazione nel manifatturiero italiano è calata di quasi 800mila unità (-17,1%). Si tratta di un riflesso della distruzione del 25% dell'apparato industriale a causa della crisi. Dalla primavera del 2015 gli occupati sono aumentati dell'1,5% (+60mila unità) nel comparto della manifattura, ma è un valore esiguo rispetto al milione di posti di lavoro recuperati in Italia da quando è in atto l'inversione del ciclo macroeconomico. L'incremento della produttività è stato ottenuto grazie a un allungamento dell'orario di lavoro (+5,2% il monte ore lavorate rispetto al primo trimestre 2015), ma a tutto questo non ha fatto da contraltare un recupero della competitività perché il costo del lavoro per unità di prodotto è aumentato del 15,2% negli anni della crisi svantaggiando le imprese italiane rispetto alle concorrenti tedesche, francesi e spagnole.
Ecco perché Confindustria si rivolge ancora una volta al settore bancario affinché possa fungere da acceleratore della ripresa. «Poiché i margini industriali rischiano di essere erosi da un rialzo delle commodity, è cruciale - si legge nel rapporto del Csc - che avvenga finalmente la ripartenza del credito bancario alle imprese per rendere durevole il rilancio produttivo». In media, nel manifatturiero i prestiti sono cresciuti dello 0,2% al mese nei primi sette mesi del 2017, registrando un +1,7% rispetto a fine 2016, un andamento migliore di quello del credito al totale delle imprese (+0,3% annuo a luglio).
A farsi portavoce della necessità di non cedere alla retorica dell'ottimismo forzato è stato il ministro dello Sviluppo, Carlo Calenda. «La crisi non è alle spalle non solo perché lo dicono i numeri, ma perché la nostra realtà imprenditoriale è andata incontro a un processo di selezione brutale», ha affermato aggiungendo che «se nella prossima campagna elettorale i programmi economici si fonderanno su distribuzioni a pioggia, il Paese sarà a rischio».
L'appello è stato condiviso dal presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia, che ha preannunciato che all'assise degli imprenditori del 16 febbraio «la politica deve spiegarci che tipo di idea di Paese ha in mente, non vogliamo sentire un racconto di Paese dei balocchi: dobbiamo parlare di un grande piano per la produttività».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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