
C'è un'Italia dove la legge sembrerebbe non essere più uguale per tutti. Un'Italia in cui la stessa condotta un pestaggio in famiglia, una mutilazione, persino uno stupro può valere anni di carcere se a compierla è un italiano, ma trasformarsi in un gesto "comprensibile" se a farlo è un immigrato. È l'Italia delle toghe rosse, quelle che nelle riviste di Magistratura Democratica teorizzano i cosiddetti "reati culturalmente motivati": una categoria che, in nome del multiculturalismo, rischia di legittimare la barbarie.
Il caso che tutti ricordiamo è quello di Torino, lo scorso anno: la Corte d'appello ha assolto una coppia romena proveniente da un campo nomadi, accusata di aver picchiato ripetutamente le figlie. Secondo i giudici, le violenze non costituivano maltrattamenti, ma un metodo educativo "ereditato dalla loro cultura d'origine". Le botte, insomma, non come reato ma come strumento di disciplina.
Una sentenza che ha fatto scalpore, ma che non è affatto un unicum: è la punta dell'iceberg di un filone ideologico coltivato da anni. Nelle pagine di Questione Giustizia, rivista di riferimento di MD, si legge: "Quando gli immigrati giungono nel nostro Paese, trovano reati diversi rispetto a quelli previsti nel loro Paese d'origine". E ancora: "L'immigrazione diventa, per il nostro Paese, fonte di pluralità di culture". Da qui l'idea che lo straniero non possa essere giudicato con lo stesso metro, perché "portatore di un bagaglio culturale che nessuno può sequestrargli alla frontiera". In altre parole: ciò che qui è reato, altrove non lo è, e quindi va punito con indulgenza?
Gli esempi sono tanti. Nel 2012 la Corte d'appello di Venezia ha assolto due genitori nigeriani accusati di aver sottoposto le figlie neonate a mutilazioni genitali. In primo grado erano stati condannati, ma i giudici di secondo grado hanno ribaltato la sentenza: secondo la motivazione, la cosiddetta aruè "non era finalizzata a menomare la sessualità delle bambine, ma costituiva un rito di purificazione e di identità". Ancora: "un atto non percepito come violento nella cultura di appartenenza degli imputati". Due bambine mutilate, ma nessun colpevole.
Un anno prima, nel 2011, la Cassazione aveva annullato la condanna di una madre nigeriana che aveva fatto circoncidere il figlio in casa da una connazionale priva di qualsiasi titolo medico. Il neonato era finito in ospedale in fin di vita, dissanguato. Ma per i giudici supremi l'imputata non poteva comprendere la gravità del gesto, essendo "portatrice di un bagaglio culturale estraneo alla civiltà occidentale".
Ancora: nel 2007 la Cassazione si è trovata di fronte al caso di un marocchino che aveva costretto la moglie, sposata con matrimonio combinato, a rapporti sessuali. Condannato, sì, ma con l'attenuante della "minore gravità": secondo la motivazione, "nell'ordinamento culturale di provenienza non è configurabile come illecito il rapporto sessuale imposto dal marito alla moglie", e quindi la violenza andava valutata con minor severità. Uno stupro, insomma, ma meno grave perché avvenuto all'interno di un contesto culturale "diverso".
La giustificazione è sempre la stessa: il diritto penale non è neutrale, ma riflette la cultura italiana. Risultato? Non sono i migranti a dover rispettare le nostre leggi: siamo noi a piegarle ai loro usi e costumi, con il rischio di accettare pratiche che sfiorano la barbarie e trasformare l'illegale in qualcosa di tollerato.
In questo scenario una parte della magistratura, quella vicina alla sinistra pro-accoglienza, sembrerebbe più interessata a legittimare l'immigrazione indiscriminata che a difendere le leggi dello Stato, contribuendo così alla delegittimazione della giustizia stessa.