Jens Weidmann parcheggia un Panzer di traverso sulla strada del quantitative easing . Difensore estremo dell'ortodossia monetaria, allergico alle misure di stimolo non convenzionali e in palese opposizione al troppo morbido Mario Draghi, il capo della Bundesbank manda un avviso ai naviganti nelle acque agitate da bassa crescita e deflazione dell'Eurozona: i governi dovrebbero «concentrarsi sulla crescita piuttosto che sull'acquisto di bond governativi. Ed esistono grossi ostacoli legali alla possibilità che la Bce acquisti titoli di Stato».
È riuscito a resistere in silenzio giusto qualche giorno, Weidmann, prima di replicare alle parole con cui, venerdì scorso, Draghi aveva steso tappeti rossi alla possibilità di allargare decisamente i perimetri di manovra dell'Eurotower, così da riportare l'inflazione vicina al target del 2%. Un'azione a tutto campo, sorretta dall'intenzione di gonfiare di 1.000 miliardi il bilancio della Banca centrale, centrata non solo sullo shopping di bond sovrani, ma anche sullo spostamento dell'asse dagli investimenti a basso rischio a quelli non proprio da tripla A, mettendo nel calderone anche azioni e, forse, perfino il mercato immobiliare. Un miscuglio palesemente indigesto ai tedeschi, con la Buba che ventila la possibilità di ricorsi contro il quantitative easing , come peraltro già avvenuto con l'Omt, il cosiddetto scudo anti-spread, su cui la Corte di giustizia Ue sarà chiamata a pronunciarsi il prossimo gennaio. Ciò che sembra spaventare Weidmann è che l'acquisto di titoli sovrani crei «nuovi incentivi ad alimentare il debito», «rallenti le riforme in un certo numero di Paesi» e possa comportare «un azzardo morale aggiuntivo» rispetto alle attuali misure di allentamento decise dall'Eurotower. Nella sostanza, agendo da prestatore di ultima istanza, la Bce libererebbe i governi dall'obbligo di rigare dritto.
È evidente che l'intervento di Weidmann rende ora tutto molto più complicato, ridisegna quegli scenari che, forse troppo frettolosamente, indicavano come possibile l'impiego, già in dicembre, del bazooka monetario e dà la misura del solco profondo che separa la Buba dall'ex governatore di Bankitalia. A scavarlo, l'intervento di Jackson Hole dello scorso agosto, quando Draghi aveva per la prima volta aperto con grande decisione alla possibilità di varare un Qe in salsa europea. Poi, il vaso è traboccato in settembre, nel momento in cui i tedeschi sono finiti in minoranza all'atto di votare il dossier Abs. Sconfitti da quella che Draghi aveva definito una «maggioranza confortevole».
Un vero smacco, che la Buba e i suoi alleati si sono legati al dito. La ritrovata unità d'intenti nella riunione d'inizio novembre, sottolineata dallo stesso presidente della Bce durante la conferenza stampa, era quindi solo di facciata.
Se Draghi deciderà di andare sino in fondo, il vertice di dicembre potrebbe dunque essere teatro di una vera e propria resa dei conti. Visto che in passato mai era stato esplicito nell'indicare come intende muoversi, è verosimile che il presidente della Bce non nasconda la mano. Soprattutto dopo aver offerto ai mercati, la scorsa settimana, la quasi certezza che ogni indugio verrà abbandonato.
Le Borse, ieri, hanno però subito fiutato il pericolo, tirando il freno non appena Weidmann ha iniziato a parlare (Milano ha chiuso a -0,14%). Questi timori non hanno tuttavia impedito ai rendimenti del Btp a 10 anni di scendere al minimo storico del 2,16%, con lo spread Btp-Bund a 136 punti, un livello che non si vedeva da aprile 2011.