La guerra Usa-Cina si sposta sui cambi

Yuan svalutato sotto la soglia di 7 dollari. Washington invoca l'intervento dell'Fmi

La guerra Usa-Cina si sposta sui cambi

Con l'elmetto ancora calato in testa, i mercati non escono dalla trincea dopo il black monday costato a Wall Street una perdita vicino al 3%, la peggior seduta del 2019, e ribassi diffusi nelle piazze finanziarie mondiali. L'intervento con cui la banca centrale cinese ha riportato ieri il cambio dello yuan rispetto al dollaro sotto la soglia psicologica di quota 7 non ha rassicurato gli investitori. Né ha indotto l'amministrazione Trump a far marcia indietro. Anzi. Il segretario al Tesoro Usa, Steve Mnuchin, ha ufficialmente accusato Pechino di essere un «manipolatore di valuta», chiedendo al Fondo monetario internazionale di «eliminare l'ingiusto vantaggio competitivo». Addebiti respinti dalla People's Bank of China. Insomma, volano gli stracci in un clima sempre più arroventato. E con questa situazione un rimbalzo degli indici diventa un affare complicato. Partita bene, l'Europa si è infatti afflosciata verso la chiusura (-0,68% Milano, -1,72% lo Stoxx600), mentre New York ha faticato a restare in positivo (+0,5% a un'ora dalla chiusura). Dovranno attendere tempi migliori i 500 re Mida del pianeta, impoveriti dal lunedì nero di 117 miliardi di dollari. La fortuna del patron di Amazon, Jeff Bezos, è dimagrita di 3,4 miliardi, mentre Mark Zuckerberg (Facebook) ha perso 2,8 mliardi.

Le prospettive non sono buone. Nomura fa la Cassandra mettendo in conto un prossimo sell-off così violento da essere paragonabile a quello provocato dal crac di Lehman Brothers. Di sicuro continuerà il duello tra Usa e Cina, con l'asticella del tit for tat (il cosiddetto pan per focaccia) spostata sempre più in alto. Gli analisti di Citi si aspettano che già da settembre l'America farà scattare dazi del 25%, e non del 10%, sui 300 miliardi di dollari di merci cinesi inserite nell'ultima rappresaglia. Col ridursi delle chance di un accordo entro l'anno, tra gli esperti si fa strada la convinzione che anche un aumento dei tassi da parte della Fed dello 0,50% non basterà a compensare i danni di una trade war prolungata.

Improbabile comunque che il conflitto si concentri sul fronte valutario. Non conviene a nessuno. Non certo al Dragone: un conto è un'azione di forza one shot, come quella di lunedì, un altro sostenere in modo prolungato una svalutazione competitiva senza pagarne le conseguenze sotto forma di una fuga di capitali e di una probabile contrazione della domanda interna. Per Washington, la situazione appare perfino più problematica. Trump, di fatto, non dispone di strumenti per sgonfiare il dollaro. Non lo è il Fondo di stabilizzazione degli scambi, la cui dotazione di poco superiore ai 20 miliardi è insufficiente. Misure di maggior calibro dovrebbero avere il placet del Congresso. Sempre che The Donald non intenda bypassare il Parlamento dichiarando che quella valutaria è un'emergenza nazionale tale da richiedere un massiccio intervento da parte della Fed. Il cui compito sarebbe vendere dollari.

Un'opzione nucleare dagli effetti collaterali che ne sconsigliano l'impiego: con il crollo del greenback si avrebbe contestualmente anche una caduta verticale della fiducia nella valuta di riserva globale. Col risultato di provocare un'ondata di vendite di titoli del Tesoro Usa, ma lo stesso effetto di fuga si avrebbe sull'azionario. Se la Casa Bianca vorrà continuare a far guerra alla Cina, dovrà scegliere altre armi.

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