I veleni Cgil mettono a rischio il contratto dei bancari

I veleni Cgil mettono a rischio il contratto dei bancari

Il contratto dei bancari, invidiato da generazioni di italiani, rischia di diventare solamente un ricordo. Di finire disciolto nella resa dei conti che ribolle in seno alla Fisac-Cgil a tre mesi dal rinnovo dell’accordo raggiunto tra l’Abi e i sindacati di categoria: la Fabi e le «confederali» Fiba, Uilca e appunto la Fisac. A mettere a repentaglio l’impalcatura definita con la squadra di Francesco Micheli, è lo scontro in atto tra la maggioranza riformista delle tute rosse del credito che esprime il segretario generale Agostino Megale, legato a Susanna Camusso, e l’ala più radicale. Che, dopo aver osteggiato Megale in Direttivo e appiccato focolai di protesta a Napoli in seno a Intesa Sanpaolo e al gruppo Monte Paschi, si sta infatti opponendo alla firma del contratto nazionale nelle centinaia di assemblee che si susseguiranno in tutta Italia fino a lunedì 9 aprile per raccogliere l’opinione dei 340mila bancari italiani. A guidare l’assalto è Domenico Moccia che, dopo essere stato al vertice della Fisac - quando a reggere le Cgil era Gugliemo Epifani - ha fondato la corrente la «Cgil che vogliamo», contro l’ascesa di Susanna Camusso, delfina dello stesso Epifani. Quasi un «partito» interno a Corso Italia che, stando a quanto si dice, muoverebbe in simbiosi con la Fiom di Maurizio Landini e con gli elementi oltranzisti del Pd con l’obiettivo di dare vita a un nuovo «Fronte del no», simpatizzante con i No-Tav.
In sostanza un trampolino che potrebbe assegnare a Moccia nuova forza per combattare Megale e passare poi all’incasso come leader della minoranza interna Cgil: più dissenso crea, più forza contrattuale ottiene. Moccia, che da qualche mese ha scelto la pensione, sul proprio sito Internet sostiene che la proposta di contratto in discussione è da respingere perché insoddisfacente, e rimarca come non resti che «piangere». I sindacati del credito sono invece convinti che la base approverà l’accordo raggiunto. In ogni caso, stando a quanto è possibile prevedere, difficilmente gli operai tessili o metalmeccanici riusciranno ad avvicinarsi ai 170 euro di aumento strappati a regime dai bancari, malgrado una crisi del sistema tanto profonda da costringere i maggiori gruppi creditizi a chiudere in rosso il 2011 sotto il peso delle svalutazioni. Il contratto pone inoltre le basi, con il neonato fondo per l’occupazione, per assumere 25mila giovani, grazie anche al contributo dei dirigenti e dei top manager dei singoli gruppi, spronati dal presidente dell’Abi Giuseppe Mussari a retrocedere il 4% della propria retribuzione fissa. Cui si aggiungono le misure per riportare in seno alla categoria, pur con un minimo decurtato del 20% per quattro anni, le «lavorazioni» prima esternalizzate.
Senza contare che se la base respingesse l’accordo raggiunto, l’Abi potrebbe decidere di non sedersi più al tavolo negoziale, demandando ogni trattativa alle singole banche sul «modello Marchionne».

A quel punto non ci sarebbe più tutela nazionale, come peraltro vorrebbero alcuni istituti così da azzerare gli inquadramenti, rivedere le norme contrattuali sulla mobilità e sui trasferimenti e applicare tabelle economiche più basse.

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