Con l’avvicinarsi del Natale anche Angela Merkel è diventata più buona: «Salvare la Grecia è nell’interesse dei tedeschi, nessuno in Europa trae maggior vantaggio della Germania dalla moneta unica». Ben detto. Peccato che non sia la prima volta che il Cancelliere tedesco si esprima in tal senso, salvo poi non far seguire i fatti.
Santa Maria de Feira (Portogallo) - 20 giugno 2000. «Il Consiglio europeo si congratula con la Grecia e accoglie con favore l’ingresso del paese nell’Eurozona il 1˚ gennaio 2001». Inizia così la tragica storia della Grecia: nel 1999 il deficit e il debito pubblico erano pari a -2,5% e a 94% rispetto al Pil. E il paese cresceva felicemente al ritmo del 3,4%. Passano solo 5 anni e c’è un primo colpo di scena. Dopo le elezioni del 2004, il governo greco cambia la metodologia di contabilizzazione delle spese relative alla difesa con effetti anche sugli indicatori macroeconomici degli anni precedenti. Apriti cielo. Il rapporto deficit/Pil sale a -3,07% (non in linea con il parametro del 3% previsto da Maastricht). Da qui l’accusa alla Grecia di aver «truccato» i conti. Eurostat e Commissione europea non li avevano certificati? Certamente, tanto che nel 2006 Eurostat ha confermato la metodologia di contabilizzazione delle spese relative alla difesa adottata dalla Grecia prima del 2004. Ma non ha corretto il dato contenuto nelle serie storiche, lasciandolo a -3,07% piuttosto che riportarlo a -2,5%. La posizione netta degli Stati del Sud, cosiddette «cicale» (Grecia, Portogallo, Irlanda, ma anche Italia), è andata via via peggiorando, passando da valori positivi a valori negativi, mentre, di converso, è migliorata la posizione degli Stati del Nord, cosiddette «formiche» (Germania e Olanda), che sono passati da disavanzi strutturali delle proprie bilance dei pagamenti a posizioni di surplus. Vuol dire che, a causa dell’euro, le «cicale» hanno importato (transazioni finanziarie incluse) più di quanto hanno esportato. E per coprire gli squilibri crescenti sono stati costretti a indebitarsi sempre di più. Mentre per le «formiche» è avvenuto l’esatto contrario. Significativo al riguardo il confronto tra Germania e Italia. La prima è passata da un disavanzo della bilancia dei pagamenti di -35 miliardi nel 2000 a un avanzo di 181 miliardi nel 2007. Al contrario l’Italia, che nel 1996 aveva un surplus di oltre 30 miliardi di euro, è andata via via peggiorando fino a registrare un disavanzo di -55 miliardi nel 2010.
Negli Stati «cicala» i tassi di interesse bassi si sono tradotti in deficit, in ragione del cambio fisso. Con la sequenza: deficit della bilancia commerciale; deficit della bilancia dei pagamenti; deficit della finanza pubblica. Nel caso della Grecia si aggiunge un altro elemento: l’elevata spesa in armi, negli anni dell’euro in media oltre il 3% del Pil. E chi ha prestato i soldi alla Grecia contribuendo a far aumentare il debito pubblico? Le banche tedesche e francesi. Il cerchio si chiude. Con un doppio bluff.
Si è ampliato il divario tra i paesi «cicala» e i paesi «formica», che hanno capitalizzato, contro gli altri Stati dell’euro, i risultati conseguiti con le riforme attuate nella seconda metà degli anni 90. Ma l’Unione dovrebbe basarsi su principi di solidarietà, non sulle recriminazioni. Tanto più che gli Stati «virtuosi » traggono notevole beneficio dalla «convivenza» europea, in termini di esportazioni, come abbiamo visto, ma anche di finanza, sia privata che pubblica. Senza alcun meccanismo redistributivo. E gli squilibri rimangono. Anzi aumentano.
Se ciò non bastasse, con l’ingresso nella moneta unica c’è stata la cessione, da parte degli Stati nazionali, della sovranità della politica monetaria. Elemento, quest’ultimo, che aiuta a comprendere meglio la crisi del debito sovrano che ha colpito l’Europa, che va ben oltre la Grecia, e il conseguente andamento «sregolato» dei rendimenti dei titoli di Stato dei paesi dell’euro.
Gli Stati che fanno parte di un’unione monetaria, infatti, emettono debito in una valuta su cui non hanno il controllo. Di conseguenza, i governi di questi paesi non possono garantire che ci sarà sempre liquidità disponibile per rimborsare i titoli del debito alla scadenza. Ed è pertanto lecito il dubbio, che può insorgere negli investitori, che questi governi non riescano a pagare i propri creditori. Al contrario, ciò non accade per i paesi che non fanno parte di un’unione monetaria, perché essi emettono debito nella loro valuta e possono quindi garantire che ci sarà sempre la liquidità necessaria per rimborsare i titoli.
È la dimostrazione che nelle unioni monetarie ove la banca centrale non funge da prestatore di ultima istanza, come nel caso dell’area euro, gli Stati membri sono suscettibili di oscillazioni di fiducia da parte dei mercati. Quando gli investitori temono difficoltà nei pagamenti da parte dei governi, a causa della recessione oppure per la scarsa credibilità dei conti pubblici, come è avvenuto in Grecia, vendono i titoli di Stato. E questo produce due effetti: aumenta i tassi di interesse e sposta la liquidità verso investimenti considerati più sicuri. Nel caso dell’area euro, il Bund tedesco.
La crisi in Grecia, tuttavia, è stata la cartina di tornasole di una crisi ancor più grave: quella dell’Europa e delle istituzioni comunitarie. Dopo la Grecia, è toccato all’Irlanda,al Portogallo, alla Spagna e, purtroppo, anche l’Italia.Ma è sulla Grecia che si gioca la partita. Da lì tutto è cominciato, sia pur in maniera pretestuosa, e lì tutto finirà. In un modo o nell’altro:sia che la si «salvi», sia che si continui con l’indecisione, l’impotenza e il ritardo europeo. Basti pensare al picco del 24 luglio scorso, quando circolava l’ipotesi dell’uscita della Grecia dall’euro, percepita tanto vicina da coniare un nuovo termine « Grexit », al calo del 20 febbraio, quando l’Eurogruppo ha varato un pacchetto da 130 miliardi, così come era avvenuto il 2 maggio 2010, con un pacchetto di aiuti di 110 miliardi di euro, e come è avvenuto lunedì scorso, con il via libera per ulteriori 43,7 miliardi. Non è un caso se giovedì abbiamo collocato 3 miliardi di Btp a 10 anni al tasso del 4,45%.
L’unica ricetta anti-crisi seguita in Europa è stata quella masochistica e pauperistica imposta dalla Germania. A fronte degli aiuti ricevuti dai paesi dell’Eurozona e dal Fondo monetario internazionale, la Grecia ha dovuto impegnarsi ad implementare una serie ossessiva di misure di rigore e di austerità, finalizzate al consolidamento dei conti pubblici, sotto la sorveglianza di Commissione europea, Bce e Fondo monetario internazionale. Misure che prevedono performance di bilancio non realistiche per la Grecia, soprattutto alla luce della recessione profonda che esse stesse hanno generato.
Tutto perfettamente in linea con l’egoistico disegno tedesco di egemonizzare l’Europa;con il principio calvinista della colpevolizzazione e della demonizzazione degli Stati; con la teoria dei «compiti a casa» in politica economica. Niente di più sbagliato.
Allungare la scadenza dei titoli di-Stato greci o offrirne agli investitori di nuovi in sostituzione (roll-over); ridurre artatamente i rendimenti; chiedere ai detentori privati di rinunciare a parte del proprio credito (il famoso haircut , che non è un banale taglio di capelli) e in cambio imporrealla Grecia provvedimenti sangue, sudore e lacrime insostenibili, fissando obiettivi non realizzabili e spingendo il paese nella povertà e nel disordine sociale non è certamente la soluzione, né mai lo sarà.
Alla Grecia e all’Europa servono misure diverse da quelle finora adottate, e immediate. I paesi che registrano un surplus nella bilancia dei pagamenti (che include sia i movimenti delle merci sia i flussi di capitali) hanno il dovere economico e morale non di prestare i soldi, non di «salvare », ma di reflazionare.
Un consiglio ad Angela Merkel: lasci stare le parole e passi ai fatti.
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