L’allarme della Corte dei conti: in tasse la metà dello stipendio

Secondo le toghe contabili i balzelli di Stato si mangiano il 45% del Pil. Per allinearci all’Ue servono 50 miliardi di sgravi a dipendenti e imprese

L’allarme della Corte dei conti: in tasse la metà dello stipendio

Roma - Nel Paese delle mille tasse, che è purtroppo il nostro, la pressione fiscale ha raggiunto il 45% del prodotto interno lordo, «un livello che ha pochi confronti nel mondo» e che grava in misura eccessiva sui contribuenti onesti. Stavolta è la Corte dei Conti a lanciare l’allarme fisco: con l’ultima manovra 2011 targata Monti, che per ben due terzi si basa su nuove tasse, il livello di guardia è stato superato. Per ritornare nella media europea sarebbe necessario sgravare l’impresa e il lavoro dipendente di 50 miliardi di euro complessivi: 18 miliardi in meno dalle aziende, e 32 miliardi in meno dai dipendenti.
Gli italiani stanno sperimentando sulla propria pelle il reale significato di questi numeri. Nelle buste paga di marzo troveranno le trattenute arretrate per le addizionali Irpef locali (che, cosa mai vista, sono retroattive); in giugno, poi, entreranno a regime le nuove addizionali. Sempre in giugno, per la precisione entro il 20 di quel mese, i contribuenti dovranno affrontare i fortissimi rincari dell’Imu, l’imposta municipale sulla casa che sostituisce - e in molti casi raddoppia o triplica - la vecchia Ici. In autunno arriverà l’ennesima mazzata, l’aumento di due punti delle aliquote Iva, confermato nei giorni scorsi dal viceministro dell’Economia, Vittorio Grilli. Inoltre, come sottolinea la Corte, il taglio delle agevolazioni fiscali previsto in alternativa all’aumento dell’Iva «non è stato ancora accantonato». Tutto questo, nonostante che il calo dello spread valga più o meno quanto l’incremento di due punti dell’Iva, in termini di minore interessi da pagare sui titoli pubblici. E nel 2013, secondo i primi calcoli, anche l’asticella del 45% dovrebbe essere superata.
A conti fatti, il peso effettivo del fisco sui contribuenti fedeli è però ben maggiore del 45%. Il Pil italiano comprende infatti anche una vasta quota di economia in nero, dal quale non giunge un euro di tasse. Così, la confederazione artigiani di Mestre calcola che la pressione fiscale effettiva sui contribuenti che pagano le tasse, siano essi aziende o persone, raggiungerà quest’anno il 54,5%: un livello che non ha eguali al mondo.
Ma anche restando al dato ufficiale, il 45% appunto, si tratta di una cifra record. Siamo partiti dal 31% nel lontano 1980 ed abbiamo toccato il livello finora più elevato di pressione fiscale nel 1997 (il 43,4%) con l’introduzione dell’eurotassa, l’imposta straordinaria introdotta dal governo Prodi per far entrare l’Italia nel gruppo iniziale dei Paesi euro. Nel confronto europeo, il 45% ci consente di primeggiare nella classifica dei tassatori superando la Francia e l’Austria. Più esosi di noi, soltanto la Danimarca, il Belgio e la Svezia. Paesi dove, però, i servizi funzionano.
Il presidente della Corte dei Conti, Luigi Giampaolino, spiega in un’audizione parlamentare che «sulla spinta dell’emergenza» le ultime manovre si sono concentrate sulle imposte anziché, «come sarebbe stato desiderabile», sul lato della riduzione della spesa. Tassare è indubbiamente molto più facile che tagliare i costi. Ma il lato oscuro delle manovre prevalentemente fiscali è il calo della crescita economica. In Italia, osserva il presidente della magistratura contabile, non c’è soltanto una pressione molto elevata, ma anche «una distribuzione del prelievo che penalizza i fattori produttivi rispetto alla tassazione dei consumi e dei patrimoni». Senza contare poi la dimensione dell’evasione, che colloca il nostro Paese ai vertici delle graduatorie europee.
I risultati della lotta all’evasione dal 2006 al 2011, secondo i calcoli della Corte, ammontano a un totale di 73 miliardi di euro. Ma il fenomeno è ancora troppo ampio, tanto da richiedere ulteriori interventi, ad esempio con la tracciabilità dei pagamenti anche sotto l’attuale limite dei 1.000 euro.

Giampaolino chiede al fisco di adottare anche un ruolo persuasivo, con una verifica preventiva delle congruità delle dichiarazioni dei redditi rispetto ai livelli di consumi ed agiatezza dei contribuenti. In ogni caso, le manovre fiscali da sole non basteranno mai ad abbattere il debito pubblico. Lo Stato non deve perciò rinunciare a ridurre lo stock di debito attraverso la cessione di parte del suo immenso patrimonio.

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