C'è modo e modo di calcolare l'impatto sull'economia provocato dalla guerra commerciale tra Usa e Cina. Il Fondo monetario internazionale, per esempio, ha un approccio tradizionale basato sull'andamento del Pil. Con le stime rilasciate ieri, l'Fmi ha infatti rivisto al ribasso la crescita del Dragone al 6,2% nel 2019, dal precedente 6,3, proprio per effetto del braccio di ferro con Washington. Più eterodosso, ma non per questo meno scientifico, è invece il metodo usato dalla Federal Reserve e dall'Università di Chicago. Si basa sui prezzi delle lavatrici. Nulla di stravagante, per la verità. A partire dal 2012, le denunce presentate da un gigante del bianco come Whirlpool contro i produttori coreani, messicani e cinesi che avevano invaso il mercato a stelle e strisce, hanno portato all'introduzione di numerose norme anti-dumping. E così, le variazioni dei listini delle washers sono diventati un punto di riferimento, quasi un benchmark, per valutare le ripercussioni delle tariffe punitive.
Dal rapporto firmato a quattro mani da Fed e University of Chicago si capisce che i danni causati dalle tariffe punitive imposte da Donald Trump non sono stati indolori per le tasche dei consumatori americani. Si stima infatti un costo aggiuntivo di 1,5 miliardi di dollari su base annua per le famiglie. Un calcolo che deriva dai rincari, attorno agli 86 dollari per unità (un +12%), subìti sia dalle lavabiancheria importate sia da quelle made in Usa, e anche dalle asciugatrici (92 dollari). L'acquisto dei due beni durevoli avviene infatti quasi sempre in coppia. Un'abitudine che i produttori ben sanno e che, quindi, ha portato ad aumentare anche il prezzo delle dryers, nonostante siano esentate dal regime daziario.
A fronte di quella che è una vera e propria perdita di potere d'acquisto per Main Street, cioè per la gente comune, con un incasso per il fisco di appena 82 milioni, si è registrato un fenomeno anomalo. Anche se è assai probabile che gli aumenti di prezzo abbiano interessato anche tutti gli altri settori merceologici colpiti dalla mannaia trumpiana, di questi rincari non c'è evidenza nell'inflazione, rimasta sostanzialmente stabile in tutti questi mesi di crescente turbolenza commerciale. Il motivo? Alcune ricerche indicano che sono stati gli esportatori cinesi ad essersi fatto carico di gran parte degli aggravi legati ai dazi. Gli economisti europei Benedikt Zoller-Rydzek e Gabriel Felbermayr hanno sostenuto in un articolo del novembre 2018 che «le imprese cinesi pagano circa il 75% dell'onere tariffario». Se ciò permette da un lato ai consumatori Usa di attutire un colpo che potrebbe essere ben più duro, dall'altro a risentirne sono gli utili delle imprese cinesi e, dunque, l'intera economia dell'ex Impero Celeste. D'altra parte, in base alle stime di Oxford Economics, le importazioni statunitensi di beni cinesi soggetti a tariffe del 25% sono crollate del 50%.
La stessa società di ricerche calcola anche che se Washington e Pechino imporranno tariffe elevate su tutti i beni scambiati, l'economia cinese crescerà nel 2020 di 1,3 punti percentuali in meno rispetto a uno scenario di pace commerciale, mentre quella statunitense accuserà una frenata di 0,5 punti percentuali. Alla fine, ci perdono tutti. Anche il whiskey Jack Daniel's, con il produttore Brown-Forman costretto ieri a lanciare un profit-warning.
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