Sulla scena petrolifera irrompono le tensioni tra Turchia e Kurdistan, con il Brent che si è spinto ieri fino a quota 58,48 dollari al barile, il livello più alto dal 15 luglio 2015. In attesa di una possibile estensione dei tagli alla produzione da parte dell'Opec, tema che sarà oggetto di discussione il prossimo novembre, a infiammare i prezzi del greggio sono le minacce con cui Ankara non ha escluso il blocco dell'export dal Kurdistan a causa del referendum per l'indipendenza deciso da Erbil. «Abbiamo il rubinetto. Nel momento in cui lo chiudiamo, è fatta», ha affermato il presidente turco Recep Tayyip Erdogan.
La reazione dei mercati sembra in linea con le conseguenze che potrebbero derivare dallo stop. L'area che verrebbe colpita non è infatti marginale: le riserve della regione sono stimate in 45 miliardi di barili, il cui sfruttamento è legato a doppio filo all'oleodotto che trasporta 550mila barili al giorno fino a Ceyhun in Turchia e al valico di Habur, dove transitano 1.700 tir al giorno. Le minacce turche seguono l'invito rivolto domenica scorsa dall'Irak a tutti i Paesi stranieri di smetterla di acquistare il greggio estratto dai curdi nel nord del Paese. Baghdad ha inoltre votato una mozione per schierare l'esercito a Kirkuk e nelle zone contese.
Il surriscaldamento delle quotazioni del petrolio (che ha interessato anche il Wti, ai massimi da 4 mesi) fa ovviamente il gioco dei Paesi produttori, fino a poche settimane fa ancora alle prese con prezzi ancora sotto i 50 dollari. Nell'agenda dell'Opec è infatti già segnata per novembre una riunione a Vienna che avrà come punto principale l'estensione dei tagli all'output e la possibilità di imporre quote di produzione a tutti i membri del Cartello. A rivelare l'ordine del giorno del vertice novembrino è stato il ministro del Petrolio degli Emirati arabi, Suhail al-Mazroue, secondo il quale il mercato ha cominciato a riequilibrarsi dopo l'accordo tra i Paesi Opec e non Opec sui tagli alla produzione. I principali produttori mondiali di greggio hanno trovato un'intesa per ridurre la loro produzione a fine 2016 di circa 1,8 milioni di barili al giorno per sei mesi.
L'accordo è stato poi prorogato per sei mesi e ha spinto in rialzo i prezzi che attualmente si aggirano intorno ai 55 dollari al barile. Un livello ancora insufficiente, tuttavia, per rinsanguare le casse pubbliche di molti Paesi, entrate in sofferenza dopo la picchiata subita dai prezzi a partire dal 2014.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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