Microsoft stanga il Brasile per rimediare al mini-real

Una multinazionale come Microsoft ha da sempre il firewall attivo contro i rischi di cambio. Eppure, il paracadute dell'hedging valutario sembra non bastare. Al punto da aver consigliato all'inizio di novembre un ritocchino dei prezzi praticati sui mercati dei traballanti Paesi emergenti. Dalla Nuova Zelanda alla Turchia. Nel caso specifico del Brasile, l'aumento si è tradotto in un sobrio rincaro del 58% sui prodotti di Redmond, nonostante il real si sia deprezzato di circa il 30%, da inizio anno, rispetto al dollaro. Evidentemente, i vertici della creatura di Bill Gates sono convinti che la già critica situazione nel Paese sudamericano, scivolato in recessione nell'agosto scorso, sia destinata a peggiorare. Non sono i soli, peraltro. Nel settembre scorso, oltre ad appiccicare il bollino nero al rating brasiliano (ora a livello junk, spazzatura), Standard&Poor's ha posto in negativo l'outlook. Una misura che ha il profumo acre di un'ulteriore bocciatura in arrivo. Se è vero che le aziende tutelano il business come meglio credono (durante la crisi del rublo alcune case automobilistiche, come per esempio, General Motors decisero di non esportare più le loro vetture in Russia), di sicuro la mossa di Microsoft bene non fa a un Paese che sta lottando per non ripiombare nella trappola dell'iper-inflazione che nel 1994 portò alla rottamazione del cruzeiro, sostituito dal real. Al momento, la partita appare abbastanza compromessa proprio a causa dell'indebolimento della moneta nazionale che rende più salate le importazioni: i prezzi al consumo stanno galoppando veloci verso il 10%, un valore lontano dall'obiettivo del 4,5% della banca centrale. È un surriscaldamento pericoloso, nonostante i tassi siano stati alzati per nove volte da gennaio fino ad arrivare all'attuale 14,25 per cento. Rese così strette, le maglie del costo del denaro stanno contribuendo a comprimere il Pil, mentre appaiono sempre più come un pallido ricordo i tassi di crescita media del 4,5% realizzati tra il 2006 e il 2010. A fine anno, il Brasile potrebbe registrare una contrazione attorno al 2%, un dazio pagato alla caduta dei prezzi delle materie prime e alla svalutazione monetaria, ma anche al coinvolgimento della presidente Dilma Rousseff nello scandalo che ha visto come protagonista, per diversi episodi di corruzione, il gigante petrolifero Petrobras. Ciò ha finito per allontanare gli investitori e ha prodotto la paralisi di una larga fetta dell'economia.

In più, il Paese si trova a dover fare i conti anche con la fuga dei capitali, peraltro già iniziata nel 2013 quando l'allora presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, cominciò a ventilare il ritiro delle misure di stimolo all'economia americana, il cosiddetto tapering. E ora, proprio la Fed rischia di dar la mazzata finale se in dicembre verrà deciso il primo giro di vite ai tassi dal 2006. Per il Brasile si profila un Natale da samba triste.

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