La mina petrolio minaccia le Borse

L'Opec estrae a pieno ritmo, i prezzi rischiano un altro tonfo. Più debiti per le compagnie

La mina petrolio minaccia le Borse

Le Borse sembrano ormai in modalità ferragostana: i pochi scambi e l'encefalogramma piatto degli indici suggeriscono il temporaneo accantonamento dei grandi temi che hanno dominato - e condizionato - i mercati negli ultimi mesi. Ma forse ancor prima di settembre, accanto agli interrogativi legati alle incertezze sulle banche (con particolare riferimento alla complicata ricapitalizzazione di Mps), sullo stato di salute della Cina e sulle mosse di Federal Reserve e Bce, potrebbe essere il petrolio a calamitare l'attenzione degli investitori.

Le quotazioni del greggio continuano infatti a essere una sorta di conundrum, per dirla con Greenspan, cioè una sorta di rebus di difficile risoluzione. Risalite dai minimi, non hanno poi saputo tenere la soglia psicologica dei 50 dollari il barile. Ieri il focus è andato sulle scorte settimanali americane, cresciute a sorpresa di un milione di barili nella settimana chiusa il 5 agosto scorso. Il Wti è così arretrato a 42 dollari e il Brent a 44,3. Il dato sugli stock, per quanto importante, è però soggetto alla tipica volatilità delle rilevazioni settimanali. Il mercato si interroga soprattutto sulle risposte che potrebbero arrivare dal prossimo vertice Opec, organizzato dal 26 al 28 settembre ad Algeri. Il presidente dell'Organizzazione, Mohammed Bin Saleh Al-Sada, ha assicurato che «il calo dei corsi petroliferi osservato negli ultimi tempi e la volatilità attuale dei mercati» sono solo temporanei e che è in vista un rialzo dei prezzi. Tanto sicurezza pare sorretta dalla convinzione, ribadita proprio ieri, che l'anno prossimo la domanda mondiale di greggio crescerà di 1,15 milioni al giorno grazie alle maggiore sete energetica dei Paesi extra-Ocse e sarà accompagnata da un'ulteriore contrazione produttiva da parte dei Paesi esterni al Cartello. Insomma: sempre che davvero si verifichi, la compensazione tra offerta e richiesta non arriverà dalla decisione dell'Opec di tagliare l'output, un autentico tabu riconducibile alla volontà di far la guerra allo shale oil Usa e al greggio russo.

Il summit di settembre nasce quindi sotto cattivi auspici e nel segno della solita anarchia estrattiva che certo non fa bene ai prezzi. D'altra parte, in luglio, i pozzi Opec hanno operato a pieni giri pompando 33,1 milioni di barili al giorno, poco più di un terzo della produzione mondiale. E sempre il mese scorso, l'Arabia Saudita ha stabilito il nuovo record con l'estrazione di 10,67 milioni di barili al giorno per soddisfare l'elevata domanda domestica stagionale e per mantenere le sue quote di mercato. Della proposta di Doha per sterilizzare la produzione sui livelli di gennaio non è rimasta traccia, a differenza delle tensioni fra Riad e Teheran esacerbate dal rifiuto dell'Iran, da poco uscito dall'embargo, di contenere la produzione.

Di mancata rimozione dei nodi strutturali che hanno provocato il crollo dei prezzi del petrolio dai picchi sopra i 100 dollari del 2013, creando voragini di bilancio e mettendo a rischio i sistemi di welfare, parla Morgan Stanley nel prevedere uno scivolamento del barile a 35 dollari nei prossimi mesi. E al futuro andamento delle quotazioni guardano con una certa preoccupazione le grandi major.

Nonostante la scomparsa degli utili dai bilanci e la picchiata della liquidità, pur di mantenere invariata la politica dei dividendi e assicurare ricchi stipendi ai top manager i grandi gruppi si sono caricati di debiti, passati dagli 80 miliardi di dollari a fine 2013 ai 138 miliardi del primo semestre 2016.

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