Wall Street non basta più: Alibaba fa rotta verso la Borsa di Hong Kong. Dopo l'incasso record di 25 miliardi di dollari a New York nel 2014, il colosso cinese dell'ecommerce fondato da Jack Ma punta a rastrellare altri 15-20 miliardi sulla piazza orientale.
Il dado è tratto, con gli advisor già al lavoro per poter consentire ai rivali di Amazon di sbarcare sul mercato azionario dell'ex colonia inglese verosimilmente nella seconda metà dell'anno in corso.
Un fiume di denaro destinato a sostenere gli investimenti in tecnologia, anche se non pochi analisti dubitano dell'effettiva necessità di liquidità per un gruppo la cui capitalizzazione sfiora i 400 miliardi ed è capace di generare flussi di cassa stratosferici ogni anno. In effetti, è difficile non trovare qualche correlazione tra la mossa di Alibaba e i rapporti commerciali tesissimi tra Usa e Cina, con reciproche rappresaglie a colpi di dazi.
Le trattative sono al momento in completo stallo, senza che una data per la ripresa dei negoziati sia stata ancora fissata. Donald Trump ha dichiarato lunedì scorso che l'America «non è pronta a un'intesa». Come una spada di Damocle, pende su Pechino la minaccia di altre tariffe punitive per complessivi 300 miliardi. Ma il Dragone, che non ha affatto digerito il bando di Washington nei confronti di Huawei, sta preparando una controffensiva destinata a far male alle imprese a stelle e strisce: il divieto all'esportazione di terre rare negli Stati Uniti, fortemente dipendenti dalla Cina per le forniture di questi componenti chimici, fondamentali per l'industria tech e in particolare per quella dei semiconduttori.
Quella di Alibaba potrebbe insomma configurarsi come una sorta di «piano B» necessario per non farsi trovare impreparati nel caso la trade War Usa-Cina dovesse degenerare. Del resto, se Wall Street è stata nell'ultimo anno fonte di delusioni, con il titolo calato di oltre il 20%, a Hong Kong sono maturate le condizioni ideali per quotarsi dopo la rimozione del divieto agli scambi di azioni dual share. Inoltre, una testa di ponte sul listino orientale consentirebbe un migliore e più rapido accesso ai prestiti delle banche del Far East e metterebbe gli investitori del gruppo, per la maggior parte asiatici, nella condizione di operare con lo stesso fuso orario.
Oppure, il progetto di quotarsi all'Hkex potrebbe essere prodromico a un gesto ancor più clamoroso: il delisting da Wall Street. Un precedente già c'è, ed è ancora fresco: Smic, la principale società cinese di chip, ha chiesto la scorsa settimana di uscire dal Nasdaq per approdare proprio ad Hong Kong, in quella che molti osservatori hanno interpretato come una risposta alla guerra commerciale.
Del braccio di ferro fra le due super-potenze economiche rischia di farne le spese anche
Apple se i consumatori cinesi preferiranno marchi locali in nome del nazionalismo. Gli analisti di Citi hanno tagliato a 205 da 220 dollari il prezzo obiettivo della Mela Morsicata, lasciando però il rating a «Buy», comprare.
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