Fino a oggi abbottonata come una suora di clausura, la Federal Reserve esce ora allo scoperto sui dazi trumpiani: il protezionismo portato avanti dalla Casa Bianca a colpi di rialzi tariffari, non riuscirà a centrare l'obiettivo di riequilibrare lo squilibratissimo deficit commerciale a stelle e strisce, pari lo scorso anno a 568,4 miliardi di dollari (il 2,9% del Pil). Una bocciatura in piena regola, contenuta in uno studio pubblicato dalla Fed di New York, nel momento in cui il tycoon non sembra affatto aver intenzione di sotterrare l'ascia di guerra (commerciale). Nè con la Cina, nè con l'ex regina del made in Usa, quell'Harley Davidson colpevole di voler delocalizzare la produzione per sfuggire alle tagliole daziarie imposte dall'Unione europea. «Molti proprietari di @harleydavidson pianificano di boicottare l'azienda se la produzione si sposta all'estero. Grande!», ha twittato The Donald.
Più che continuare ad accanirsi con l'icona delle motociclette, Trump dovrebbe però forse cominciare a preoccuparsi della perdita di consensi che lievita attorno alla sua trade strategy. Cresce il malcontento della Corporate America, dove si temono importazioni sempre più care, con ricadute sulle spese dei consumatori. La Fed mette infatti il dito sulla piega quando ricorda come alla fine la politica restrittiva del presidente Usa «risulterà probabilmente in un calo delle importazioni e delle esportazioni, con poco o nessun miglioramento nel deficit commerciale». E ancora, a spiegare le dinamiche interne che si innescano con la battaglia sui dazi: «anche se gli esportatori americani finiscono per fare affidamento su articoli prodotti in Usa, i costi a loro carico saliranno comunque perchè i fornitori connazionali in competizione saranno in grado di alzare i prezzi nei settori protetti da dazi più alti». I ricercatori fanno un esempio citando i dazi del 25% voluti da Trump sull'acciaio in arrivo sul suolo Usa. «I produttori americani di acciaio possono alzare i prezzi e restare competitivi. Sono gli esportatori statunitensi che dipendono da loro che saranno colpiti negativamente. E questo vale ancora prima che venga tenuto conto del costo per gli esportatori delle misure di ritorsione di altri Paesi».
Ma nell'analisi della sede newyorchese della banca centrale, l'elemento più urticante per l'amministrazione Trump è dato dal fatto che l'inutilità (se non proprio la dannosità) delle misure punitive viene dimostrato citando proprio l'inversione di marcia fatta dalla Cina prima di entrare nel Wto (dicembre 2001). Se nel 2000 le tariffe doganali cinesi erano in media «relativamente alte», al 15%, entro il 2006 erano scese in media del 40% al 9%.
E con quali risultati? «Un incremento enorme (di oltre il 25% in media per anno)», spiega la Fed, dei tassi di crescita sia delle importazioni sia delle esportazioni cinesi successivamente all'ingresso nell'Organizzazione mondiale del commercio. Non solo. Il taglio dei dazi sulle importazioni è stato il cavallo di Troia che ha permesso «alle aziende cinesi di entrare nel mercato americano».
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.