C on il taglio netto, da 60 a 30 miliardi di euro, agli acquisti mensili di titoli deciso ieri dalla Bce siamo quasi all’ultimo giro di giostra. Quasi, perché il quantitative easing è stato prolungato fino a settembre 2018, allungandone di nove mesi quella che, in teoria, doveva essere la scadenza naturale. Ma un fatto è certo: il Luna Park della liquidità facile-facile, garantita a tutti, sta per spegnere le luci. Con qualche rischio in prospettiva per l’Italia che i mercati, soddisfatti della colomba estratta dal cilindro da Mario Draghi, si sono ben guardati di tenere in debito conto. Così, anche un Qe a scartamento ridotto è stato in grado di piegare l’euro ben al di sotto degli 1,17 dollari, restringere lo spread Btp-Bund (a quota 153) e far lievitare le Borse (+1,61% Milano). Al di là di quella che si potrebbe definire un’illogica euforia, generata magari dalla mossa dovish di reinvestire massicciamente i bond acquistati arrivati a scadenza, alcuni interrogativi è meglio porseli subito. Il primo è cosa succederà a partire dal prossimo settembre. Il presidente dell’Eurotower ha precisato che il piano è «open ended», vale a dire che non ci sarà un immediato azzeramento dell’ammontare di asset che la banca centrale si mette in pancia. Nulla di brutale e nel solco della tradizione, vista la gradualità che ha finora contraddistinto il processo di normalizzazione della politica monetaria. E considerato, inoltre, che la Bce non esclude un’ulteriore estensione degli aiuti oltre l’autunno 2018 se l’andamento dell’economia, e dell’inflazione in particolare, non sarà in linea con le attese. Ma Francoforte ha un problema, destinato probabilmente ad accentuarsi nel prossimo futuro. Ovvero, i falchi all’interno del consiglio che contestano una strategia ritenuta eccessivamente morbida. L’ex governatore di Bankitalia non ha infatti nascosto ieri che sulla nuova configurazione del bazooka è mancata la convergenza assoluta: «I punti di vista sono stati diversi», in particolare sull’indicazione di una data di fine del Qe. Insomma: la Bundesbank e i suoi alleati hanno fatto pressione per stabilire subito il finis vitae del Qe. Nei prossimi mesi, di sicuro, torneranno alla carica con maggior vigore. In ogni caso, è verosimile che in assenza di eventi traumatici la Bce tiri definitivamente i remi in barca all’inizio del 2019. Per poter affrontare con le mani più libere un altro delicatissimo tema, quello del rialzo dei tassi. A quel punto, lo scudo fin qui garantito non ci sarà più. E i Paesi come l’Italia dovranno farsi trovare pronti all’appuntamento col «nuovo mondo», pena possibili pesanti contraccolpi sul debito. Su questo versante, il nostro Paese è messo male. Una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro ha messo in evidenza che l’indebitamento italiano, anziché ridursi, è salito dal 2014 al primo trimestre 2017 di 138 miliardi. Nonostante la Bce. Eppure, al netto della spesa per le pensioni e del pagamento degli interessi sul debito, la spesa pubblica è tra le «più basse dell’Ue», ha ricordato di recente il commissario alla revisione della spesa, Yoram Gutgeld. Quello tricolore sembra quindi essenzialmente un problema di crescita economica troppo debole per incidere sulla montagna del debito. Draghi, anche ieri, è tornato a battere sul tasto delle riforme strutturali, necessarie per «il rafforzamento del potenziale di crescita di lungo termine e la riduzione delle vulnerabilità».
Ma serviranno anche riforme in grado di far ripartire i salari, attenuando la precarietà, per ricostruire una solida base di crescita ed evitare di ricadere nella recessione. Servono, in sostanza, risposte politiche. Resta da vedere se arriveranno dalle urne la prossima primavera. In caso contrario, con la Bce in ritirata, prepariamoci a un altro autunno del nostro scontento.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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