La Corte di Cassazione ieri ha confermato la condanna emessa nel 2015 a quattro anni e sei mesi di reclusione per l'ex presidente di Capitalia, Cesare Geronzi, e a tre anni e sei mesi per l'ex ad della banca romana, Matteo Arpe, nell'ambito del processo sul crac delle acque minerali Ciappazzi. L'accusa è di bancarotta fraudolenta. Sono stati condannati anche Roberto Monza e Antonio Muto a tre anni e due mesi ciascuno, Riccardo Tristano a tre anni e Eugenio Favale a due anni e due mesi.
È comunque passata in giudicato la condanna penale. Mentre sarà la Corte di Appello di Bologna, che per la terza volta si occuperà del processo, a stabilire quale sarà la durata delle pene accessorie (inizialmente fissate in 10 anni di inabilitazione dall'esercizio di impresa e 5 di interdizione dai pubblici uffici) da applicare agli imputati. In base a una recente sentenza della Consulta, infatti, non possono esserci automatismi nella durata delle pene accessorie per il reato di bancarotta. I giudici dell'appello tris dovranno stabilire per quanto tempo gli imputati saranno inibiti dal ricoprire incarichi societari e pubblici uffici.
Geronzi, classe 1935, ex presidente anche di Mediobanca e di Generali, oggi non risulta più avere alcuna carica e detiene solo il 60% della Bigger, srl nata nel 2008 attiva nelle pubbliche relazioni e comunicazioni, amministrata dalla figlia Benedetta. Quanto a Arpe, presidente del gruppo finanziario Sator da lui fondato, attualmente non è nel cda di istituzioni bancarie quotate e quindi non incorre nel rischio di decadere secondo le norme di rispettabilità della Bce. Considerando le norme per l'indulto, che si può applicare una volta sola, Geronzi avendolo già chiesto per il crac Cirio non può ricorrervi. Ma considerata la sua età non dovrebbe correre il rischio di entrare in carcere perché nei suoi confronti vige la legge ordinaria che tutela gli ultraottantenni dall'ingresso in cella e per lui, imputato di bancarotta e non di corruzione, non si applica la legge «Spazzacorrotti» che annulla il «vantaggio» anagrafico. Per Arpe, che invece può usufruire di tre anni di indulto, la condanna si tradurrà nell'affidamento per sei mesi a lavori socialmente utili senza effetti sulle attività professionali. I suoi legali, intanto, hanno presentato una richiesta di revisione dell'intero processo sulla base dell'emersione di un nuovo quadro probatorio che farebbe cadere l'intero impianto accusatorio, e il procedimento è stato incardinato presso la Corte di Appello di Ancona.
Partito come filone dell'inchiesta su Parmalat del 2003, al centro del processo era finito l'affare Ciappazzi, combinato, secondo l'accusa, tra il gruppo Ciarrapico e la Parmalat di Calisto Tanzi su pressione illecita di Geronzi che, all'epoca dei fatti, nel 2002, era il numero uno del gruppo bancario romano. Tanzi avrebbe acquistato la società di acque minerali in difficoltà ad un prezzo gonfiato per ottenere poi dal gruppo Capitalia un finanziamento da 50 milioni, che sarebbe servito a tenere a galla il settore turismo della Parmalat. La banca avrebbe consentito al gruppo Ciarrapico di incamerare i soldi della vendita e di conseguenza far rientrare in Banca di Roma (poi Capitalia) i fondi di un finanziamento concesso anni prima.
Le condanne del 2015, confermate ieri, erano arrivate dopo che la Cassazione, a fine 2014, aveva annullato una precedente sentenza di secondo grado, con rinvio alla Corte d'Appello di Bologna per la riformulazione
delle pene. Il 7 giugno 2013 la stessa corte aveva condannato Geronzi a 5 anni e Arpe a 3 anni e 7 mesi per concorso in bancarotta, confermando la sentenza di primo grado emessa dal Tribunale di Parma il 29 novembre 2011.
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