PENSIONI

Quando andremo in pensione? Se ci arriveremo in buona salute, potremo contare su un assegno in grado di garantirci una vita dignitosa? Domande fondamentali perché riguardano il nostro futuro, ma anche perché equivalgono a chiedersi a cosa servono i circa 200 miliardi di contributi che ogni anno lavoratori e aziende versano agli istituti di previdenza.

Le risposte non sono semplici e non (solo) perché i calcoli e le simulazioni devono tenere conto di una normativa opaca e complessa. Gli automatismi e una legislazione ballerina spostano sempre più avanti il limite di età, rendendo difficile prevedere il «quando». Complicato anche capire il «quanto», perché dipende da eventi che non possiamo controllare. In primo luogo la continuità del lavoro. Unico dato che possiamo dare per certo è che sarà sempre più difficile andare in pensione.

Rinviati i tentativi di rendere meno rigidi i requisiti restano in vigore i requisiti della legge Fornero e quelli delle altre riforme introdotte a partire dagli anni Novanta. Un complesso di norme che renderà, soprattutto nei prossimi anni, il sistema italiano uno dei più severi al mondo. I lavoratori attivi di oggi dovranno aspettare circa un decennio in più rispetto ai predecessori per potere accedere alla pensione.

Dai vecchi 58 anni (con 35 di contributi) passeremo, intorno al 2030 (cioè quando i 40-45enni di oggi saranno lavoratori anziani), ai 68 anni e un mese come requisito per la «vecchiaia». Negli anni successivi si sfioreranno i 70 anni. Le pensioni anticipate, la nuova versione di quelle di anzianità, sono un miraggio, un residuo del vecchio sistema, destinato a svanire. Un tempo con 40 anni di versamenti c'era la certezza della pensione. Oggi, a un (o una) 40enne che pensi di ritirarsi a 62 anni, quindi nel 2037, deve sapere che gli serviranno almeno 45 anni di contributi. In altre parole l'aspirante pensionato del XXI secolo deve avere versato regolarmente da quando aveva 17 anni. A un 50enne, la pensione a 62 anni, costa 44 anni e 2 mesi di contributi, quindi un posto fisso dal 1982. C'è un anno di sconto alle donne, nel caso in cui rientrino nel sistema retributivo o misto. Un po' meglio per la generazione degli attuali sessantenni, parzialmente graziati anche dall'ultima stretta varata dal governo Monti.

Tutti effetti delle varie riforme previdenziali. In particolare del meccanismo degli adeguamenti alle speranze di vita, introdotti nel 2010 e rafforzati l'anno successivo. In teoria si basano su calcoli attuariali, di fatto sono un automatismo che sposta ogni due anni l'asticella più avanti di due mesi. Meccanismo poco conosciuto, ma fondamentale perché condiziona in modo pesante i requisiti per il ritiro.

Gli importi delle pensioni sono l'altra variabile difficile da controllare. Anche questi dipendono da periodici ricalcoli. L'indice di rivalutazione del montante contributivo (cioè la somma dei contributi) viene periodicamente modificato sulla base delle aspettative di vita. Il prossimo adeguamento scatterà il primo gennaio 2016 e comporterà un mini taglio alle pensioni lorde. Nell'arco di decenni, anche questa rivalutazione si fa sentire.

I dati statistici danno tassi di sostituzione (cioè il rapporto tra l'ultimo stipendio e l'importo dell'assegno della previdenza) che sembrano smentire la tesi di chi sostiene che le nuove generazioni avranno pensioni da fame. Un lavoratore dipendente nato nel 1974 che abbia iniziato a lavorare a 24 anni potrebbe prendere il 75,80% dell'ultimo stipendio, il 66,1% se è un autonomo (dati del Bilancio del sistema previdenziale 2015 di Itinerari Previdenziali, centro guidato da Alberto Brambilla). Ma se la carriera lavorativa è discontinua tutto cambia. Negli anni sono state condotte simulazioni che tengono conto dei buchi contributivi secondo le quali da uno stipendio medio, si potranno ricavare rendite vicine alla pensione minima.

Ci sono poche alternative.

Le nuove generazioni dovranno prendere confidenza con la previdenza complementare. Potrà sembrare paradossale, ma è l'unico strumento, almeno per il momento, che può permettere ai 40enni di oggi di minimizzare i rischi legati alla previdenza pubblica.

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