Powell scaccia i fantasmi della crisi

Il numero uno della Fed: «Le possibilità di recessione non sono per niente alte»

Powell scaccia i fantasmi della crisi

Le possibilità che il transatlantico America si schianti contro l'iceberg della recessione «non sono per niente alte». Jerome Powell prova a fare il capitano coraggioso nonostante la rotta di politica monetaria sia bruscamente cambiata alla fine di gennaio, quando il presidente della Federal Reserve aveva ammesso che «la possibilità di alzare i tassi si è in certa misura indebolita». Con ciò lasciando intendere che per tutto l'anno il costo del denaro potrebbe restare compreso nell'attuale forchetta fra il 2,25 e il 2,50 per cento.

Agli occhi di molti osservatori la virata è sembrata una resa incondizionata ai desiderata, dettati da tweet sempre più ruvidi, da parte di Donald Trump che mal sopportava i ripetuti aggiustamenti verso l'alto (ben nove dal 2015, quattro nel 2018) del costo del denaro. Sono gli stessi esperti secondo cui il comportamento di Eccles Building è inspiegabile. Lo sarebbe a fronte di un'economia che lo stesso Powell, parlando ieri a un incontro con gli studenti della Mississippi Valley State University, a Itta Bena, ha detto che «va bene». E non ha tutti i torti, il successore di Janet Yellen. A dicembre, secondo il Job Openings and Labor Turnover Survey, il numero di annunci di lavoro ha raggiunto infatti il record di 7,34 milioni, superando ancora il numero di disoccupati, questa volta di un milione di unità.

L'interrogativo è quindi il seguente: come può non sopportare ulteriori strette un Paese che mostra simili numeri? La domanda suona retorica alle orecchie di chi è convinto che la metamorfosi da falco a colomba della Fed sia stata determinata non solo dall'intenzione di assecondare Trump, ma anche dalla volontà di rassicurare Wall Street, che alla vigilia di Natale aveva toccato il punto più basso di un 2018 molto volatile e caratterizzato da reazioni negative ai rialzi dei tassi.

Durante l'incontro a Itta Bena, Powell non si è soffermato su uno dei punti considerati critici dalla Federal Reserve sotto il profilo congiunturale, ovvero le ancora non sanate tensioni commerciali tra e Stati Uniti e Cina. Domani il quadro potrebbe essere più chiaro, una volta conclusi gli incontri a Pechino tra la delegazione americana - composta dal segretario al Commercio, Robert Lighthizer, e da quello al Tesoro, Steven Mnuchin - e il vicepremier cinese, Liu He, e il governatore della People's Bank of China, Yi Gang. Trump attende sviluppi, anche se ieri si è detto pronto a estendere oltre il prossimo primo marzo la tregua di tre mesi stabilita col presidente Xi Jinping a margine del G20 di Buenos Aires. «Se siamo vicini a un accordo e se pensiamo di poter fare un vero affare - ha spiegato il tycoon ai giornalisti - , potrei lasciare in attesa quella slide ancora per un po'», anche se «in generale non sono propenso a farlo».

Le ripercussioni sulla crescita globale derivanti da un mancato accordo tra le due super-potenze economiche, rischierebbero tra l'alto di impattare sulla domanda di greggio. E di vanificare, quindi, il taglio alla produzione di 797mila barili al giorno messo in atto durante lo scorso mese di gennaio dall'Opec, con lo sforzo maggiore fatto dall'Arabia Saudita (-350mila barili), dagli Emirati Arabi Uniti e dal Kuwait.

Il restringimento dell'offerta ha portato ieri a forti rialzi delle quotazioni del Wti (+1,6%, a 53,23 dollari) e del Brent (+1,4%, a 62,34 dollari), ma la fiammata rischia di essere effimera se il mondo scivolerà in recessione e sarà dunque meno assetato di greggio.

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