L'euro comincia ad andare stretto non solo a quei Paesi con pulsioni verso il break-up, ma anche a quelli con parametri economici così solidi da far invidia a Mario Draghi. La Repubblica Ceca è tra questi. Alla fine della scorsa settimana, Praga ha deciso di recidere il cordone ombelicale che dal 2013 legava la corona alla moneta unica. Un ancoraggio artificiale (in gergo chiamato peg o cap), in base al quale il cambio è stato per circa quattro anni forzatamente tenuto fisso nel rapporto di 27 corone per un euro. Questa sorta di cristallizzazione valutaria aveva una duplice scopo: impedire una rivalutazione della divisa nazionale che avrebbe fatto esplodere la deflazione; proteggere le industrie locali dalla debolezza dell'euro, il principale mercato di riferimento.
È una politica difensiva con qualche controindicazione, a cominciare dall'accumulo di riserve in divise straniere (soprattutto euro). Nel primo trimestre di quest'anno, infatti, la banca centrale ceca ha acquistato 40 miliardi di euro per difendere il peg, da sommare probabilmente agli 81 miliardi che già giacevano nei caveau alla fine del 2016. Uno stock eccessivo espone però al rischio di ingenti perdite in caso di brutale rivalutazione della moneta nazionale. Un rischio che i cechi non hanno voluto correre. Per mesi, con un intelligente lavoro di comunicazione, hanno preparato il terreno all'abbandono del cap.
Così, mettendo i mercati sul chi vive, Praga non ha commesso l'errore madornale fatto nel gennaio 2015 dalla Svizzera che decise, senza alcun preavviso, di divorziare dall'euro. Con risultati raccapriccianti: crollo della Borsa, franco schizzato verso l'alto, più disoccupati, gelata dell'economia (+0,8% il Pil contro il 2% dell'anno prima) e molti investitori short verso il franco costretti a leccarsi profonde ferite. Quell'atto sta peraltro ancora condizionando la politica monetaria della Banca nazionale svizzera, costretta a stampare franchi come se non ci fosse un domani e a investirli sui mercati azionari con la foga di un hedge fund.
Lo sgancio della corona dall'euro non ha invece provocato nessun sconquasso. Anzi, calma piatta: 26,61 il fixing di ieri, non molto distante dal peg a quota 27. Se nei prossimi mesi l'apprezzamento dovesse diventare pronunciato (ma gli analisti non si aspettano una rivalutazione superiore al 5%), il Paese sembra avere le spalle abbastanza robuste per reggerlo. Il Pil è stimato in crescita quest'anno del 2,5%, la disoccupazione è al 3,5% e il surplus della bilancia dei pagamenti equilibrato (l'1,2% del prodotto lordo). La temuta gelata dei prezzi è inoltre un ricordo: l'inflazione ora viaggia al 2,5%, e Praga potrebbe essere indotta a prendere in considerazione, nei prossimi mesi, l'idea di alzare i tassi. Una stretta che le imprese ceche potrebbero sopportare anche se dovesse tradursi in un cambio meno favorevole e in un costo del denaro più salato.
Il periodo in cui la corona era saldata all'euro è stato infatti sfruttato per investire in macchinari, alzare la produttività e migliorare l'efficienza. Con la Bce destinata a non muoversi almeno fino a dicembre, sarebbe un ulteriore passo laterale rispetto all'eurozona.Ma da qui a parlare di Czexit, cioè di fuga dall'Unione europea, onestamente ce ne passa.
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