Così è davvero decrescita. Al solito, arriva da dove non te l'aspetti. A causarla non saranno tanto le scellerate politiche assistenziali, pensate da chi non conosce altro modo di avere denaro che non sia l'elargizione, premio di una vittoria elettorale o concorsuale. Nemmeno il milione di pubblici dipendenti che resterà a casa nel post-Covid e nel 2021, che tanto anche quando erano sul posto non è che dessero questa spinta alla produttività. No, sono proprio le grandi imprese nazionali e multinazionali, guidate da manager e consigli di amministrazione, a gettare le basi per un diffuso impoverimento dell'economia, in qualità e in quantità.
Nonostante siano solide e alcune proprio ricche, stanno tagliando i costi in modo selvaggio pur di non andare in rosso quest' anno. Prigionieri di valutazioni finanziarie, il rating cui sono agganciate le posizioni debitorie e le provviste, e invogliati dai bonus, i vertici puntano a rendere definitivo lo smart working. Costa meno e fa risparmiare sugli uffici, certo, ma il prezzo sarà salatissimo, a livello micro e macroeconomico. Le persone sono animali sociali e danno il meglio quando si incontrano e si scontrano, esercitano pressioni e trovano soluzioni, fanno e ascoltano, informano e apprendono. Nel giro di mesi, l'output di queste organizzazioni risulterà impoverito nella qualità. Ad accorgersene saranno i clienti, ma non le imprese, che avranno già distrutto la capacità di ascoltare e di intercettare i segnali deboli.
Al danno interno si aggiungerà quello esterno, macroeconomico. Lo smart working riduce la produzione di ricchezza legata alla circolazione delle persone. Un palazzo di uffici alimenta un indotto, dal parcheggio al benzinaio, dal bar al negozio vendo-tutto. Dimezzare gli uffici significa far chiudere tante attività e rallentarne altre. I milioni di fornitori non visiteranno certo i clienti a domicilio. Inoltre, stare a casa tiene le persone in un semi-torpore che ne rallenta il battito economico, cioè la propensione e la velocità dei consumi: la domanda che alimenta la produzione di ricchezza. L'aritmetica, per chi l'ha studiata, dice che per distribuire 1.724 miliardi di Pil a 60 milioni di abitanti serve un ritmo frenetico per 365 giorni: se rallenta, il Paese si mette a dieta e soffre di più chi è già magro e debole di suo.
Piaccia o no ai suoi manager, è la grande impresa il vero motore della ripresa o della decrescita. Dopo oltre vent' anni di «corporate social responsibility» fatta di alberelli piantati dove ognuno possa vederli e di ogni altra causa modaiola, ecco una vera responsabilità sociale: far girare il meccanismo economico, allargando l'interesse a quello della società. Nel bilancio di sostenibilità 2020 potranno scrivere: abbiamo fatto chiudere tante piccole attività e rallentato il ciclo economico, però finanzieremo una riserva per i koala.
Completamente diverso l'approccio degli imprenditori, che sentono l'azienda come propria e cercano in ogni modo di rimettere insieme il meccanismo, quanto prima e quanto più completamente possibile. Magari non hanno un «HR director» formato in prestigiosi atenei e chiamano ancora i dipendenti «personale» e non «risorse umane», però sanno che la sopravvivenza dell'impresa è affidata a clienti e collaboratori, i due asset principali. Sono quelli che non hanno esitato a anticipare gli stipendi, in attesa dei soldi della cassa integrazione, e che fanno rientrare le persone al lavoro, quello vero dove si produce il valore aggiunto.
Hanno già messo in conto una perdita per il 2020 e forse anche per il 2021 e si attrezzano per reperire le risorse finanziarie per tirare avanti e uscire dal guado.Non è la prima difficoltà e non sarà l'ultima. Ci sono abituati e ce l'hanno nel Dna, i piccoli come i grandi. Sono gente di visione, sanno guardare avanti alla creazione di valore vero, non quello finto degli analisti.
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