Quei furbetti anti-bruxelles

Quei furbetti anti-bruxelles

A meno di venti giorni dalle elezioni europee, la retorica sovranista e populista (e alla fine della fiera la prima coincide con la seconda) pompa al massimo il volume. Questa Europa dei finanzieri va demolita, e sulle sue macerie deve risorgere quella dei popoli e delle nazioni! Al diavolo i burocrati di Bruxelles, faremo molto meglio senza di loro! Riprendiamoci la sovranità monetaria, perché l'euro è la nostra condanna alla povertà! E via blaterando, facendo conto che gli elettori angosciati da preoccupazioni reali saranno disposti in buon numero ad affidarsi a soluzioni semplicistiche e campate per aria. Quanto è facile far politica con il martello in una mano e il megafono nell'altra.

Finchè si sta all'opposizione alzare la voce e minacciare di distruggere è una pacchia. Poi però, in alcuni casi, capita che ci si ritrovi tra quelle stesse mani le redini del potere, e allora la musica cambia. A quel punto agli eroi del popolo sovrano si presenta un bivio: o ci si rimangia gli slogan incendiari e ci si atteggia a responsabili statisti facendo comunque dei disastri per incapacità congenita, oppure si sposa fino in fondo la filosofia cialtrona del «chiagnere e fottere», che non è un'esclusiva del nostro Sud. La recente classifica della crescita del pil nei ventotto Paesi della Ue offre esempi di entrambi gli stili. Al primo, per nostra disgrazia, appartiene l'Italia ultima in tutto, dalla crescita allo 0,1% ai dati negativi di investimenti e occupazione. Al secondo campo appartengono Paesi veri maestri di sfacciataggine.

La Polonia filo-Trump e capofila degli euroscettici nazionalisti del presidente Andrzej Duda e del primo ministro Mateusz Morawiecki fa un balzo del 4,2% in un anno grazie ai generosi aiuti economici della stessa Europa tanto criticata; l'Ungheria di Viktor Orbàn, uomo simbolo del Patto di Visegrad che unisce i quattro Paesi più determinati a prendere ciò che l'Europa offre sigillando al tempo stesso le proprie frontiere segue a ruota con un ricco +3,7%; la Cechia del filorusso e antieuropeo presidente Milos Zeman critica a tutto spiano le politiche di Bruxelles ma accetta di ottimo grado i suoi fondi e cresce del 2,6%, cinque volte più della prepotente vicina Germania. Tornando alla metafora napoletana di cui sopra, sarebbe il caso di ricordare a questi amici dell'Est che «accà nisciuno è fesso». Ammesso che sia così.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica