Rodolfo Parietti
I tagli alla produzione di petrolio decisi dall'Opec mercoledì scorso ad Algeri non scaldano le Borse. Solo una reazione composta, senza picchi di euforia che sarebbero stati inappropriati visto che l'agreement del Cartello ha la stessa consistenza della carta velina. Messo in controluce, l'accordo rivela una fragilità congenita data dall'assenza di almeno tre punti fondamentali. Il primo: ancora non si sa come sarà spalmata la riduzione di 700mila barili al giorno tra i Paesi produttori. Il secondo: non è chiaro se e in quale misura l'Iran, fino alla vigilia della riunione algerina contrario a qualsiasi aggiustamento dell'output, aderirà all'intesa. Il terzo: le prossime mosse della Russia, che sta pompando greggio a tutto spiano, restano un'incognita.
Non deve quindi sorprendere il comportamento dei mercati, distratti ieri tra l'altro dalla revisione al rialzo del Pil Usa del secondo trimestre (da +1,1 a +1,4%), con possibili implicazioni sulle scelte che la Federal Reserve dovrà compiere entro la fine dell'anno in materia di tassi. Più che sugli indici (Milano ha chiuso in rialzo dello 0,72%, Francoforte e Wall Street in ribasso frazionale), l'effetto-Opec ha agito sui titoli energetici come Eni (+4,6%), Saipem (+5,4%) e Tenaris (+9,35%), tra i più penalizzati in seguito al forte indebolimento subìto dalla quotazioni del greggio dopo i picchi dell'estate 2014. Gli stessi analisti sono scettici sul fatto che un'Opec apparentemente più coesa possa avere forza sufficiente per rafforzare i prezzi petroliferi in modo significativo. Più probabile un sostegno limitato al breve termine, sempre che non si riveli un flop la riunione di fine novembre a Vienna, la sede dove dovrà essere ratificata (e dettagliata) l'intesa. Goldman Sachs ha infatti confermato la propria previsione di un Wti a 43 dollari quest'anno (tagliata dai 50 dollari precedenti), con una ripresa a 53 dollari nel 2017. Gli esperti della banca d'affari Usa fanno notare che se anche il Cartello darà una sforbiciata alle estrazioni, altri Paesi a livello globale potrebbero aumentarle. Mosca potrebbe farlo, così come i produttori Usa di shale oil nel caso di risalita delle quotazioni. Poi c'è l'incognita Cina. A fine anno Pechino dovrebbe aver accantonato riserve strategiche per 245 milioni di barili, per lo più acquistati a basso prezzo: potrebbe dunque decidere di esportarne una parte per realizzare robuste plusvalenze. Société Générale, che ha confermato le previsioni per il prezzo del Brent a 50 dollari quest'anno e a 60 il prossimo (1,50 dollari in meno per il Wti), ha invece qualche dubbio sull'entità dei tagli, «potenzialmente inferiori a 500mila barili al giorno».
In sostanza, stime che mantengono il barile in un range non molto lontano dalle quotazioni di ieri, attorno ai 47 dollari. La fiammata di mercoledì scorso (+5%) si è però esaurita, e ciò sembra scongiurare una repentina risalita delle quotazioni non indolore per le tasche degli automobilisti.
Secondo qualche analista, un apprezzamento di 10 dollari del greggio farebbe infatti scattare aumenti dei carburanti compresi tra i 10 e i 15 centesimi al litro. Per il momento, in Italia nessuna compagnia si è ancora mossa.
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