Rodolfo Parietti
Con un rialzo dell'1,73%, la Borsa di Tokyo è tornata ieri ai livelli in cui si trovava nel gennaio 1992. Sono passati 25 anni, e si vede. Il Giappone di oggi non è certo il Giappone di un quarto di secolo fa, quello dello strapotere finanziario e della primazia economica raccontati proprio in quel periodo dalla penna di Michael Crichton nel romanzo finto-thriller «Sol Levante» che tante polemiche all'epoca (su tutte, quella di razzismo) aveva sollevato.
L'allarme giallo era poi presto rientrato. Squassato per anni dalla deflazione e dalla stagnazione, sull'orlo del baratro allo scoppio della crisi asiatica del '98 e ingobbito da una popolazione sempre più vecchia, il Paese è stato rimesso in piedi solo con le misure di allentamento monetario e di spesa fiscale varate con l'Abenomics, a partire dal 2013. La fresca riconferma del premier Shinzo Abe indica che si andrà avanti senza abbandonare il solco tracciato, l'opposto esatto della severità calvinista scelta dall'Europa con l'austerity. Il mantenimento dello status quo ai mercati non può che piacere. E non solo perché il Pil nipponico cresce da sei trimestri consecutivi (+2,5% annuo tra aprile e giugno, ultimo dato disponibile), il più lungo periodo di espansione dal 2006. Certo una buona performance dell'intero Paese esprime anche la capacità delle aziende di presentare migliori bilanci e remunerare quindi meglio i propri soci.
Ma buoni conti finanziari non sarebbero probabilmente bastati per portare l'indice Nikkei a flirtare con quota 23mila punti. La mano (pesante) della Bank of Japan (Boj) si sente eccome, e rende tutt'altro che miracoloso il recupero della Borsa. Se paragonato a quanto fatto da Haruhiko Kuroda, presidente della banca centrale giapponese, il quantitative easing della Bce di Mario Draghi è appena acqua di rose. La Boj ha acquistato così tanti bond ed Etf da essere diventata il maggior detentore di obbligazioni e azioni nipponiche. Il solo programma annuale di acquisti di fondi che replicano il Nikkei ammonta a 5.700 miliardi di yen (50 miliardi di dollari circa). La strategia dell'istituto guidato da Kuroda è semplice: si interviene, quasi sempre, quando il mercato è in calo. In questo modo gli indici hanno un costante sostegno.
È però lecito interrogarsi se simili valori siano l'effetto di una droga finanziaria somministrata dallo Stato, o l'espressione di un percorso di crescita sostenibile imboccato dal Giappone. La crescita economica, infatti, non è l'unico indicatore da mettere sotto la lente. Il Paese mantiene per esempio un elevatissimo rapporto debito-Pil (oltre il 200%), seppur quasi tutto all'interno dei cofini nazionali, e l'inflazione si mantiene ben distante dal target del 2% (0,7% in settembre) anche a causa di consumi privati tutto sommato stagnanti. Malgrado la disoccupazione sia tornata ai livelli di 25 anni, i salari non crescono abbastanza.
Kuroda spera che le imprese giapponesi possano usufruire di utili record per offrire buste paga più pesanti il prossimo anno.Ma il problema di una popolazione vecchia, con un giapponese su quattro over 65, non sarà di facile soluzione.
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