Economia

Da Trump arriva la giravolta: "Il dollaro forte è un danno"

Morbido con la Cina, possibile alleato contro la Corea del Nord: «Non manipola lo yuan». E salva la Yellen

Da Trump arriva la giravolta: "Il dollaro forte è un danno"

Qual è la vera faccia di Donald Trump? Sono in molti a chiederselo, dopo che in un'intervista al Wall Street Journal il presidente Usa si è mostrato al mondo come un novello Fregoli. È l'arte del trasformismo applicata alla politica economica, in un processo di azzeramento dei capisaldi della campagna elettorale, in cui ha trovato perfino posto una rivalutazione della nemica odiatissima, la presidente della Fed Janet Yellen.

Giravolta centrista, moderata e priva delle venature rodomontesche in voga ancora qualche settimana che parte dalla delicatissima questione dei cambi. Il dollaro steroideo, immagine dei muscoli esibiti dalla Nuova America, non serve più. Anzi, è dannoso: «Penso che il dollaro stia diventando troppo forte e in parte è colpa mia, perché la gente ha fiducia in me - spiega il tycoon - ma ciò danneggia e alla fine danneggerà». I mercati prendono nota, spingendo l'euro fino a 1,0627 e penalizzando a Piazza Affari i titoli esposti verso il biglietto verde, come Stm (-3,64%) e Fca (-3,7%), che ha anche risentito dei dubbi sul passaggio (in ritardo, secondo gli analisti di Exane Bnp Paribas) dalla produzione di berline poco profittevoli a Suv e Pickup. Le Borse sono peraltro inquiete da giorni a causa dei troppi focolai potenzialmente catastrofici accesi dalle tensioni geopolitiche. Non a caso, nelle parole di The Donald c'è anche il nuovo corso della politica estera a stelle e strisce che si interseca con gli interessi economici. Con la Corea del Nord avvertita come qualcosa di più di una minaccia, ecco servita la riabilitazione valutaria della Cina, possibile alleato militare contro Pyonyang: il Dragone «non è un manipolatore di valuta». Niente male, essendo l'esatto contrario di quanto sostenuto durante la corsa per la Casa Bianca, quando fioccavano le accuse a Pechino di tenere artificialmente basso lo yuan. Realpolitik e sfacciataggine allo stato puro. È infatti lo stesso Trump ad ammettere di aver cambiato idea solo per non pregiudicare l'asse sino-americano contro Kim Jong-Un. Di fatto, la Cina resta un taroccatore di monete ma non si può più dire. Anzi. L'America tende un intero braccio a Pechino con l'offerta di condizioni commerciali migliori. Il paladino del protezionismo, il restauratore delle barriere commerciali, è sparito.

Ma la capriola degna di un trapezista senza rete è quella compiuta per l'incredibile endorsement della Yellen. «Mi piace, la rispetto». Al punto, addirittura, di non escludere una sua riconferma l'anno prossimo, quando scadrà il mandato, mentre fino a ieri la capa della banca centrale Usa era il braccio armato di Obama, la donna che tifava per i democratici per mezzo dei tassi appiattiti a zero. Basterà averle lisciato il pelo per convincerla a cambiare la rotta già tracciata? Di sicuro, i propositi della Fed di alzare almeno altre due volte il costo del denaro entro dicembre mal si conciliano con i desiderata di Trump sul dollaro. Molto dipenderà dallo stato di salute dell'economia. Non così florido come vorrebbero far credere alcuni indicatori macro. Meglio guardare altrove. Cominciando dalle chiusure e dai licenziamenti (quasi 60mila tra febbraio e marzo) che stanno falcidiando il settore del commercio al dettaglio. Non una buona cosa per un Paese in cui il 70% del Pil è fatto di consumi. Oppure non dimenticare il settore auto: 1.100 miliardi di debiti, di cui un quarto subprime con tassi di insolvenza ai più alti livelli da sette anni. È da questi due fronti che potrebbero arrivare le grane per la Yellen.

E anche per Trump.

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