Il vento di recessione spaventa le Borse

In Cina e Usa crolla l'industria, giù il Pil di Brasile e Canada: l'Europa brucia 216 miliardi. Male Wall Street

«Ci aspettiamo che la crescita globale resti moderata e probabilmente più debole di quanto previsto lo scorso luglio». Christine Lagarde, numero uno del Fondo monetario internazionale, la prende forse un po' troppo alla leggera. In realtà, in giro per il mondo pare esserci qualcosa di più di un semplice raffreddamento della crescita. Qualcosa, semmai, che fa sinistramente rima con recessione globale. Un pericolo fiutato dai mercati internazionali, ieri di nuovo in profondo rosso.

Sui radar non c'è più infatti solo la Cina, ma un proliferare di punti d'allarme. Un po' come un sommergibile che si vede arrivare siluri da tutte le parti: dura schivarli. Anche perché l'imperante strabismo finanziario ha reso tutti un po' ciechi sulla salute dell'economia reale, pessima a giudicare dall'andamento dell'industria manifatturiera in almeno tre punti del pianeta. L'indice Ism cinese, scivolato sotto i 50 punti (il peggior dato da tre anni), suggerisce che l'economia è in contrazione. Senza il sostegno delle autorità monetarie, alla Borsa di Shangai è mancata la terra sotto i piedi: -1,23%. Poi c'è il samba triste del Brasile, il cui stato di recessione già conclamato trova una perfetta sintesi nel crollo della manifattura a quota 45,8 punti, record negativo degli ultimi quattro anni. E a proposito di Pil negativo, alla brutta compagnia si è aggiunto ieri anche il Canada, che al -0,8% del primo trimestre ha sommato il -0,5% del secondo. Colpa dei bassi prezzi del petrolio.

Ma il segnale più preoccupante, quello che ha costretto le Borse europee alla ritirata con altri 216 miliardi di euro di capitalizzazione bruciati (Milano ha perso il 2,24%, Parigi e Francoforte il 2,4% e Londra il 3%) e lasciato ferite profonde a Wall Street (-2,32% alle 20 ore italiane), è rimbalzato proprio dagli Stati Uniti, dove si assiste all'apparente paradosso di un'economia in crescita del 3,7% tra aprile e giugno ma che flirta con la recessione. Il mese scorso l'Ism manifatturiero si è fermato a quota 51, appena poco sopra i 50 punti che fanno da spartiacque tra espansione e contrazione economica. Non accadeva dal maggio 2013, ma rispetto ad allora la situazione è peggiore: i volumi della produzione sono perfino più deboli di quelli del gennaio 2014, mese peraltro funestato da bufere di neve; i nuovi ordini latitano, rendendo problematico lo smaltimento di quell'eccesso di scorte (oltre 136 miliardi) che ha determinato la crescita del secondo trimestre; l'export non “tira“, complice il dollaro forte; e le assunzioni rallentano.

Un quadro pieno di criticità che la Federal Reserve difficilmente potrà ignorare a metà mese, quando dovrà decidere se alzare o meno i tassi. L'indebolimento congiunturale dovrebbe consigliare di tenere ferme le leve del costo del denaro (come peraltro suggerito ieri da Eric Rosengren, governatore della Fed di Boston), anche se le tensioni sui rendimenti legate alle vendite di treasury da parte della Cina si stanno riassorbendo grazie agli acquisti di T-bond, visti come un porto sicuro in tempi di incertezza. Più avanti, in assenza di miglioramenti, la Fed potrebbe però essere costretta a un quarto round di quantitative easing.

Naturalmente, l'Europa non è al riparo da tutte queste turbolenze.

Anzi, appare vulnerabile visti i ritmi di crescita dello zero virgola che affliggono Paesi come l'Italia. Nei giorni scorsi, più di un'esponente della Bce ha ventilato la possibilità di un ampliamento del quantitative easing. È probabile che domani Mario Draghi precisi meglio le intenzioni dell'Eurotower.

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