Rodolfo Parietti
La classica trappola da mercato Orso è quella che Wall Street ha aperto mercoledì scorso, quando il Dow Jones era schizzato in alto di quasi 5% e il Nasdaq era arrivato a sfiorare un +6%, per poi chiuderla ieri facendo cadere gli indici fino a un massimo del 3%, poi corretto in prossimità della chiusura in un calo frazionale. Un andamento schizofrenico che dà la misura dell'incapacità del mercato di trovare una direzione univoca come già avvenuto lunedì scorso, con la peggior seduta di sempre della vigilia di Natale. Ma, al di là del recupero intervenuto ieri nella seconda parte della giornata, è meglio non dimenticare un dato ormai storico: dal crollo di Lehman alla crisi finanziaria di marzo 2009, lo S&P 500 aveva registrato un rialzo di oltre il 4% in 13 diverse occasioni.
Insomma, meglio diffidare dei rialzi ubriacanti. Soprattutto se giustificati con le parole rassicuranti del consigliere della Casa Bianca, Kevin Hassett, sul fatto che il presidente della Fed, Jerome Powell, resterà al suo posto «al 100%. Assolutamente». Il duello con Donald Trump è invece ancora in corso. E al tycoon prudono le mani: vorrebbe licenziare l'ex amico Jay, colpevole a suo dire di aver innescato i rovesci di Wall Street e di mettere a repentaglio la crescita economica a colpi di rialzi dei tassi, ma sa che è un'operazione delicata e rischiosa. Meglio sarebbe convincere Powell a smetterla con le strette monetarie con un faccia a faccia. Il Wall Street Journal ha rivelato che il leader della Fed ha fatto capire che se il Commander in chief chiederà di incontrarlo, lui non potrebbe praticamente tirarsi indietro. Ancora nessun rendez-vous è stato ancora fissato, ma alla Casa Bianca si spera che ci sia magari a gennaio.
Certo un rasserenamento del clima tra la Casa Bianca e la banca centrale Usa aiuterebbe i mercati, dove ieri sono tornati ad affacciarsi i timori legati a un possibile scivolamento in recessione che hanno gelato anche i listini europei (-1,8% Milano, ma peggio il -2,4% di Francoforte). Preoccupazioni alimentate dal calo ai minimi di luglio 2011 della fiducia dei consumatori in dicembre, a sua volta provocata dal crollo più forte degli ultimi 41 anni delle aspettative legate alla creazione di nuovi posti di lavoro. L'effetto della riforma fiscale sembra insomma già svanito tra gli americani, mentre si leccano le ferite le corporation che avevano sfruttato il taglio delle aliquote fiscali per lanciare maxi-piani di buyback e ora vedono falcidiato il valore delle azioni proprie riacquistate. Apple, per esempio, ha perso circa 9 miliardi. A ciò si aggiungono le tensioni politiche a Washington legate allo shutdown, fenomeno che è destinato ad aumentare la già alta incertezza visto che impedirà la diffusione regolare dei dati macroeconomici, e quelle commerciali tra Usa e Cina. Alla luce della guerra che il governo Usa si prepara a fare a Huawei e ZTE, la tregua di tre mesi, a partire dal prossimo gennaio, siglata da Trump e dal presidente cinese Xi Jinping non sembra così solida da costituire la base per un accordo vero e proprio. Ma l'ex Impero Celeste è fonte di inquietudine perchè è da lì che, sempre più frequenti, arrivano segnali di quello che non appare un semplice rallentamento economico. L'ultimo è il primo calo dei profitti industriali in tre anni.
Nascoste sotto il tappeto mercoledì, tutte queste criticità sono ricomparse ieri sui mercati e potrebbero condizionare anche nelle prossime settimane gli investitori.
Se le previsioni dello strategist Charlie McElligott si riveleranno corrette, l'S&P 500 potrebbe crollare fino a quota 1.500, con un calo del 38% rispetto ai valori attuali. Sempre che Powell non cambi idea sui tassi.
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