La protesta in Egitto non si placa in vista del "giorno della collera", le grandi manifestazioni annunciate per oggi e del ritorno in patria di Mohammed el Baradei, che ha chiesto al presidente Hosni Mubarak di farsi da parte. Il premio Nobel per la pace, ex direttore dell'Agenzia atomica dell'Onu, è giunto ieri sera al Cairo con un volo proveniente da Vienna. «Non c'è modo di tornare indietro. Il regime di Mubarak deve fermare la violenza e capire che il cambiamento pacifico è necessario» ha dichiarato El Baradei appena sceso a terra. Il leader del Movimento per il cambiamento, poche ore prima di partire, aveva annunciato: «Sono pronto a governare se la piazza me lo chiede».
Dopo la Tunisia e l'Egitto i clan arabi al potere temono un effetto domino in tutto il Medio Oriente. Non è un caso che ieri sono scese in piazza a San'a, la capitale dello Yemen, sedicimila persone gridando: «Trent'anni al potere sono abbastanza, Ben Ali se n'è andato dopo venti». I manifestanti si riferivano al presidente yemenita Ali Abdallah Saleh, da 32 anni in sella, auspicando che se ne vada come è stato costretto fare Ben Alì, il padre padrone della Tunisia.
Ieri in Egitto le proteste sono continuate sfociando in violenti scontri con le forze di polizia, che però hanno l'ordine di usare il meno possibile la forza. Un manifestante è morto nella parte settentrionale della penisola del Sinai. A Suez la folla ha incendiato un commissariato e le forze di sicurezza avrebbero sparato proiettili di gomma. Gli scontri più duri si sono registrati a una decina di chilometri dal confine con la striscia di Gaza, dove agiscono bande di predoni e di estremisti islamici. Diecimila manifestanti sono riusciti a bloccare l'autostrada che collega l'Egitto a Israele. Gli arresti sono arrivati a quota mille e la procura ha accusato 40 manifestanti di tentato golpe. Intanto la Borsa del Cairo ha perso in un solo giorno il 10 per cento.
In questo caos è rientrato in patria El Baradei, il diplomatico egiziano che vuole guidare l'uscita di scena del presidente Mubarak. «Ha servito il paese per trent'anni. È ora che si ritiri. Deve annunciare che non si ricandiderà» ha detto il leader dell'opposizione moderata. Il riferimento è alle elezioni presidenziali di settembre. Il segretario del partito al potere, Safwat El-Sherif, ha aperto ai manifestanti dicendosi pronto ad aprire un dialogo.
Speriamo non sia troppo tardi. Oggi, venerdì di preghiera per i musulmani, è stata indetta la "giornata della collera". Alle manifestazioni hanno aderito, per la prima volta, i Fratelli musulmani, che in Egitto sono formalmente fuorilegge, e i cristiani copti.
Ieri l'onda lunga del cambiamento, partita con la rivolta dei gelsomini in Tunisia, ha lambito anche lo Yemen. Sedicimila manifestanti innalzavano nella capitale cartelli con su scritto «è ora di cambiare». Il ministro dell'Interno Motahar Rashad al-Masri ha fatto spallucce sostenendo che «lo Yemen non è la Tunisia».
Come capitò ai Paesi dell'Est europeo dopo il crollo del muro di Berlino, i clan al potere in Medio Oriente temono l'effetto domino. Il regime siriano ha bloccato l'accesso a Facebook per scongiurare manifestazioni antigovernative, che sempre più spesso vengono convocate in rete.
In Marocco il re Mohammed IV «è sceso in campo e guida personalmente la lotta contro la povertà, anche se la situazione non è paragonabile a quella della Tunisia» ha sostenuto il sottosegretario agli Esteri, Mohamed Ouzzine. In Giordania i manifestanti scesi in piazza lo scorso sabato chiedevano le dimissioni del primo ministro Samir Rifai. La molla delle proteste è quasi sempre la crisi economica. In Algeria, dove da settimane si segnalano scontri di piazza, il governo è corso ai ripari abbassando i prezzi. Anche il colonnello Gheddafi se ne è accorto. Incidenti simili a quelli tunisini sono stati segnalati ad al Bayda.
L'effetto domino si rigenera con i tanti Jan Palach arabi che si danno fuoco per disperazione invocando rivolta e cambiamento. Fino ad oggi sono quasi una trentina dalla Tunisia all'Egitto, l'Algeria, lo Yemen e il Marocco. L'ultimo è il disoccupato algerino Tahar Rabiye, che ieri ha cercato di suicidarsi.
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