Cultura e Spettacoli

EJZENŠTEJN La congiura dell’arte

Ci si può uccidere senza materialmente compiere il gesto? Su un letto d’ospedale alla Kremlëvka, tradito dal suo cuore, Sergej Ejzenštejn confessò a se stesso di averci provato: «Ho messo in pratica un metodo abbastanza complicato di suicidio di tipo indiretto. L’esito del tentativo non è ancora chiaro. Sebbene tutto faccia pensare a un fiasco. Forse è per questo che uno dei primi libri riletti dopo l’infarto è stato L’idiota. Non per via del titolo... Ma per la scena del fallito suicidio di Ippolito. Ho deciso di farlo non impiccandomi, non fumando della dinamite, non abbuffandomi di cibo proibito, non con una pistola e non con il veleno. Ho deciso di spossarmi di lavoro fino alla morte».
Alla Kremlëvka, l’ospedale della nomenklatura comunista, Ejzenštejn era finito a 48 anni, nel febbraio del 1946: un paio d’ore prima, fresco del Premio Stalin, era stato visto esibirsi in danze frenetiche e sfibranti, il sudore che colava su un corpo appesantito. La sera della premiazione era anche la sera in cui la seconda parte di Ivan il Terribile, il film per il quale si era guadagnato la più alta onorificenza sovietica, veniva visionata da Stalin e Ejzenštejn non si faceva illusioni: cos’altro era quel susseguirsi di tradimenti e sgozzamenti, la cupezza dei volti e degli interni, le crudeltà gratuite, l’eterno clima di sospetto, uno zar despota più padrone che padre, se non un’allegoria del regime? La congiura dei boiardi, questo il titolo, gli era costato due anni di vita, era la sua vita e in fondo il suo testamento, nero su bianco, anzi nero su nero tanto era disperato, privo di pietas.
Così quella serata sembrava uscita da un racconto di Gogol’: da un lato c’era il potere, minaccioso, distante e insindacabile, dall’altro l’intellettuale che quel potere metteva sotto accusa proprio mentre dallo stesso veniva premiato. Nel mezzo un clima di festa in cui tutti fingevano di divertirsi, ma nessuno si azzardava a chiedere, interrogare, confrontarsi, un’attesa che si dilatava e pendeva sul salone d’onore come una minacciosa spada di Damocle... L’ultimo, estremo tocco gogoliano fu proprio il cuore di Ejzenštejn: il suo proprietario sentì che stava andando in pezzi, il superlavoro, lo stress, la paura, l’ineluttabilità di ciò che aveva fatto e ora la sfrenata liberazione fisica in una danza che era come un addio non potevano che distruggerlo, il «complicato suicidio di tipo indiretto» su cui a posteriori avrebbe riflettuto. Mentre quel muscolo impazziva e il volto si faceva sempre più terreo, ci fu chi chiamò un’ambulanza, ma Ejzenštejn conosceva troppo bene il potere per rischiare di vedersi scippato della propria morte in punto d’arrivo: chi gli diceva che si sarebbe veramente diretta alla Kremlëvka, chi gli garantiva che degli infermieri-poliziotti non gli avrebbero definitivamente alleviato le sofferenze durante il tragitto? Si fece forza, montò in macchina, guidò lui.
In ospedale e poi in una casa di cura, sarebbe rimasto quasi un anno, «l’esito del tentativo non è ancora chiaro», come avrebbe scritto: dimesso nel ’47, la fievole ripresa fu ancora una volta messa alla prova da uno stakanovismo lavorativo che era, lo abbiamo visto, il suo modo di farla finita. Ci riuscì l’anno dopo, a cinquant’anni, centinaia di pagine autobiografiche frutto della convalescenza, negli scaffali dello studio.
Adesso che l’editore Marsilio pubblica in prima edizione italiana pressoché integrale Memorie. La mia arte nella vita (pagg. 716, euro 38) l’impressione di un’esistenza vorticosa e sfibrante, piena di progetti, studi, riflessioni, viaggi, quanto in fondo parca di realizzazioni compiute (sei film in venti e passa anni di attività, quattro negli anni Venti, uno alla fine degli anni Trenta, l’ultimo a metà dei Quaranta), e quindi lo scontro fra il voler dire e il poter dire, fra le ragioni dell’arte e la ragion di Stato, emerge nella sua pienezza e si presta ad alcune considerazioni.
Nato nel 1898, il comunismo di Ejzenštejn non fu ideologico, ma psicologico, la rivolta dei figli contro i padri, la tirannia familiare del secolo XIX: «Le basi del mio avvicinamento alla protesta sociale si sono create in me non per via delle disgrazie dovute all’assenza dei diritti sociali, non dal grembo delle privazioni materiali, non dagli zigzag della lotta per l’esistenza, ma direttamente e assolutamente dal prototipo di qualsiasi tirannia sociale qual è la tirannia del padre di famiglia, residuo della tirannia del capo tribù nelle società primitive». La «tirannia» paterna, complicata dallo sfascio familiare di un matrimonio andato in pezzi, non gli impedì di godere dei benefici di un’educazione alto-borghese fatta di ottime scuole, buoni libri, brave istitutrici, belle vacanze, un cursus honorum che permise al giovane Sergej, figlio modello e figlio obbediente, di ritrovarsi alla vigilia della Rivoluzione con tutte le carte culturali in regola per giocare da primo attore la partita del cambiamento epocale in atto nel Paese.
Della Rivoluzione Ejzenštejn fu il cantore riconosciuto, del successivo regime una sorta di convitato di pietra: troppo ingombrante per servirsene ma anche per disfarsene. Sotto questo profilo il cinema proteggeva di più e meglio della poesia, del romanzo, era un’arte pubblica, parlava per immagini, muoveva denaro, girava il mondo... Nelle Memorie un accenno alla «immoralità» di ciò che scrive è significativo: «Non mi riferisco solo all’assenza di un piano che conferisce una direzione, ma anche alla completa assenza di qualsiasi sistematicità in generale. Converrete che nel sistema di economia pianificata e in un sistema ideologico un approccio di questo tipo, naturalmente, è del tutto amorale...». I suoi film, in fondo, erano la stessa cosa, visionari, eccentrici, metaforici, frutto di montaggi, giustapposizioni, salti...
È significativo come nelle centinaia di pagine scritte, mai una volta sfugga al suo autore una nota critica, un rilievo polemico e/o politico: culturalmente gli anni Trenta crearono intorno a lui il deserto, scomparvero nelle purghe registi e critici, si impiccarono poeti, furono costretti al silenzio romanzieri, ma Ejzenštejn è troppo avveduto e troppo conscio del baratro su cui è seduto per scoprirsi. Il suo anticomunismo è della stessa grana di quello che fu il suo comunismo d’antan, psicologico, non ideologico, è ancora e sempre la rivolta dei figli contro i padri, del figlio modello, obbediente e intelligente, contro il Padre per eccellenza, il padre della Patria, l’Ivan-Stalin tirannico e terribile.

Il modo migliore per non farsi ammazzare, alla fine è ammazzarsi da solo, ma morire di troppa arte è anche l’unica arma con cui artisticamente sopravvivere.

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