Elezioni Usa, Bush crede ancora nella vittoria

La Casa Bianca conta sull’effetto istituzione: le parole pronunciate dal leader all’ultimo momento possono convincere gli incerti

Alberto Pasolini Zanelli

da Washington

Sono in molti a chiedersi, ostinatamente, quale sia la «carta segreta» di George Bush. Sono ancora pochi coloro che si chiedono se l’uomo della Casa Bianca abbia, dopotutto, una di queste armi nella manica. Ogni giorno che passa, è giudizio ormai concorde, più potente questa arma deve essere; perché altrimenti una severa sconfitta dei repubblicani appare inevitabile. Ancora le ultime ventiquattro ore non hanno portato novità dirette e sono quindi considerate tempo perso per il recupero del partito di maggioranza nelle elezioni del Congresso e tempo guadagnato, invece, per quella specie di Armata Brancaleone che assedia il Capitol Hill di Washington senza piani precisi, con qualche buon tiro ma soprattutto con la forza del numero. Ogni giorno rivelata e confermata dai sondaggi (ieri i democratici erano dati avanti di 11 punti). Che confermano la forza, in prospettiva, di un «fronte del no», tenuto assieme quasi soltanto dalla delusione per taluni aspetti importanti dell’operato di Bush e dalla ostilità personale nei suoi riguardi.
Le brutte notizie si accumulano, quelle buone, sempre più rare, resistono come delle «ridotte» isolate nel deserto dei Tartari. Si possono riassumere in un argomento, che Bush continua a sventolare come una bandiera sotto il fuoco nemico: gli americani continuano a fidarsi di più di lui e del Partito repubblicano quando pensano a chi meglio può difendere l’America dal terrorismo internazionale. Anche questo indice è diminuito, il distacco si è assottigliato ma un paio di punti in più rimangono.
Possono, alla fine, bastare? Il presidente sembra sperarlo; altrimenti non si spiegherebbe la tenacia con cui si impegna in una campagna elettorale che personalmente non lo riguarderebbe. Non soltanto per motivi tecnico-costituzionali (la Casa Bianca non è in gioco, si eleggono un terzo dei senatori e tutti i 435 deputati, anche il passaggio di una o due Camere all’opposizione non costituirebbe nessuna minaccia diretta per l’uomo della Casa Bianca; se non quella, naturalmente, di un calo del suo prestigio che renderebbe ancor più difficile il suo lavoro nei prossimi due anni) ma anche perché la sua vicinanza non è gradita da molti candidati repubblicani, che fanno anzi il possibile per evitare di comparire in pubblico accanto a lui.
E ciononostante Bush parla ogni giorno, due, tre volte al giorno. Si espone in prima persona, instancabile. Non perché disponga, a questo punto, di sondaggi contraddittori con indicazioni a lui favorevoli, ma perché sembra convinto di poter invertire la corrente negli ultimi giorni proprio con la sua presenza. Non contando sulla popolarità, ormai, né sull’approvazione, ma sulla «solennità» del suo ruolo istituzionale. Nella convinzione, non del tutto arbitraria, che anche all’ultimo momento una parola, un monito, un allarme del Presidente possano convincere quegli elettori che contano.
Cioè i suoi fedelissimi. Che alle urne sono sempre stati, finora, più numerosi di quanto ci si aspettasse. È una costante storica: i repubblicani votano di più dei democratici, l’astensionismo non si distribuisce equamente fra i due partiti. I sondaggi distinguono sempre tra le previsioni basate sugli «elettori» e quelle calcolate sui «probabili votanti». Si sono già viste in passato maggioranze democratiche fra i primi capovolte alle urne dai secondi, che sono evidentemente quelli che contano. Questa è la prima linea difensiva di Bush, che nel 2006 non sembra però in grado di respingere un assalto ma al massimo di contenerlo. Gli elettori sono molti ma i seggi realmente in palio assai pochi. Soprattutto al Senato, dove i democratici per strappare la maggioranza avrebbero bisogno di strappare ai repubblicani sei seggi, pressappoco la metà di quelli in gioco.
La seconda linea di difesa chiama in causa il presidente. In questa situazione non si tratta più di convincere degli indecisi o degli «elettori di centro» (quasi scomparsi dal paesaggio politico americano) ma di «mobilitare» i propri, mandarli alle urne.

La speranza degli strateghi di Bush è che, nonostante tutto, un appello del presidente «motivi» i suoi sostenitori più di quanto possano farlo, fra gli avversari e gli scettici, le affermazioni e promesse in ordine sparso che vengono da un partito di opposizione senza un programma né un leader.

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