ELITIS Sulla poesia splende sempre il sole

L’opera dell’autore greco scomparso dieci anni fa è fra le più luminose del Novecento. In essa l’incanto della natura è rielaborato come autentico impegno morale. Tra fierezza, malinconia e ritmica gioia

La poesia di Odisseas Elitis conversa con il mare. Racconta di vento, rocce, alberi di acacia, amarilli, olivi, ciottoli e sentieri. Vi si trovano templi antichi, chiesette sperdute, bianchi cortili, giovani donne con «l’età del mare negli occhi e la salute del sole nel corpo», e una solitaria, irriducibile, eversiva fede nella felicità. Un sognatore, si direbbe. Avulso dalle tempeste della storia e dal crudo quotidiano. Obiezione risaputa, già respinta: «Con quali pietre quale sangue e quale ferro/ Con quale fuoco siamo fatti/ Mentre sembriamo solo nuvola/ E ci lapidano e ci chiamano/ Sognatori/ Come viviamo giorno e notte/ Solo Dio lo sa».
Figlio di genitori originari di Lesbo, Odisseas Alepudelis - questo il vero nome - nacque a Iraklion, sull’isola di Creta, nel 1911. Durante le estati di navigazione sulla barca di famiglia assorbì nel corpo e nell’anima la luce dell’Egeo: da questa infanzia all’insegna dei cinque sensi - della loro libertà informale, immediata - nasce una delle opere più «solari» del Novecento, insieme a quella di García Lorca, cui l’accomuna il tono di fierezza e di malinconica, ritmica gioia. «Gli europei e gli occidentali - diceva Elitis - trovano sempre il mistero nell’oscurità, nella notte, mentre i greci lo trovano nella luce, che per noi è un assoluto». Intessuta dei raggi di questo assoluto è ogni riga dei suoi scritti, che non sono mai ritiro edenico, quanto piuttosto disciplina del vivere e del comporre: «La Grecia e il suo paesaggio sono l’alfabeto di elementi naturali a cui ho cercato di trovare una corrispondenza morale nella poesia».
A seguito del padre, proprietario di una fabbrica di sapone, Odisseas lasciò Creta per Atene, dove frequentò la facoltà di legge senza laurearsi. Durante il 1935 - la poesia neoellenica aveva già cominciato a lasciarsi alle spalle maledettismo e piagnistei crepuscolari - pubblica i primi versi sulla rivista Ta Nea Gràmmata («Le nuove lettere»). Era in buona compagnia: tra quelle pagine pubblicavano anche Seferis (che riceverà il premio Nobel sedici anni prima di Elitis, nel ’63) e Andrea Embirikos, che di Odisseas divenne amico intimo.
Sotto l’occupazione nazista della capitale, Odisseas riesce a far stampare Sole il Primo, poi parte per il fronte albanese. Tornerà con una visione della vita più completa: la morte, in precedenza accolta di sfuggita, è ora presente col suo carico di dolore e finitudine. Tuttavia, l’esperienza della trincea - cui si ispira per Canto eroico e funebre per il sottotenente caduto in Albania - e la drammatica confusione politica del dopoguerra non corrompono la sua natura. Rimane ancora capace di scrivere: «Mi basta bere un sorso di acqua pura e mangiare soltanto pane o pensare intensamente ad un’isola dell’Egeo nel sole di mezzogiorno e al fragore della risacca per ritrovare l’equilibrio in un sentimento che non è precisamente né fede metafisica, né autosufficienza estetica, né scorta di risorse fisiche, ma qualcosa, direi, come la certezza che esiste ancora una sufficiente riserva di luce nel mondo, che può controbilanciare le tenebre e che aiutandola ad emergere, e solo con questo, si rientra nell’armonia con l’esistenza e con il suo destino».
Al cospetto di questa luminosa, impegnativa saggezza le epifanie personali del poeta - la danza di una lucertola sui marmi di Olimpia, una farfalla che si posa sul seno nudo di una ragazza addormentata al sole tra le piante di limoni, i delfini visti da un battello tra Paros e Naxos - assumono valore universale, ricomponendo anche nell’anima del lettore «i frammenti della vita che teniamo nascosta o consentiamo che ce li tengano disgiunti».
Trasferitosi a Parigi nel ’48, vi conobbe, oltre ai maggiori poeti del suo tempo, artisti come Picasso, Léger, Matisse, Chagall, Giacometti: a loro e ad altri presterà lo sguardo di un critico d’arte professionista, come testimoniano i saggi raccolti ne La materia leggera - Pittura e purezza nell’arte contemporanea (Donzelli, pagg. 160, euro 23,90). In quegli stessi anni di vagabondaggio europeo, oltre a lavorare per la radio nazionale greca e a fornire testi al musicista Mikis Theodorakis, Elitis getta le fondamenta di Axion Estì (Dignum est), odissea interiore dell’uomo moderno e sua opera più rappresentativa insieme a Monogramma. Su quest’ultimo poemetto si appunta oggi l’attenzione di molti critici.
Elitis, che non aveva mai cercato l’amore ma «il vento/ e dell’alto mare aperto il galoppo», si trova coinvolto a un certo punto in un rapporto non più limitato all’Eros, per quanto questo sia sempre stato per lui ricco di profonde risonanze paniche. Che si tratti della studentessa che condivideva col poeta i disagi della mansarda parigina di rue de l’Eperon o di una precedente giovanissima ragazza, le sette poesie di Monogramma fissano in versi immortali, per struttura e bellezza, ciò che non può più essere definito, con parole troppo terrene, un amore infelice, non ricambiato. È piuttosto un incontro scritto nelle stelle, foriero di destino, da cui filtra una luce che allo stesso tempo ferisce e trasporta il poeta, e chi lo legge, in quello che Simone Weil chiamava, cercando di definire l’amore, un «evento dell’eternità».
A dieci anni dalla morte esce presso Donzelli (l’editore principale di Elitis in Italia, grazie alla ragguardevole raccolta È presto ancora e ai saggi di Il metodo del dunque, cui vogliamo aggiungere l’antologia Il giardino che entrava nel mare, Argo editore) un libro molto particolare, privo di lancio in libreria e disponibile solo presso la casa editrice: Monogramma nel mondo. L’operazione ricorda quel Cent mille milliards de poèmes con cui Raymond Queneau intese - mediante il taglio materiale della pagina in sottili strisce, una per ogni verso dei dieci sonetti della raccolta - moltiplicare quasi all’infinito la sua poesia. Nel libro che Donzelli offre a Elitis, però, tutto questo accade in modo meno cerebrale e combinatorio, grazie alla potenza delle lingue e della traduzione.
Dopo il testo originale in greco di Monogramma, vengono offerte al lettore la versione italiana di Marco Vitti, primo traduttore cronologico del poeta, per poi proseguire, in direzione dell’Oriente, con quelle in spagnolo, francese, inglese, tedesco, russo, bulgaro, rumeno, chiudendosi con la traduzione italiana di Paola Maria Minucci, curatrice del volume, amica di Elitis e professoressa di Letteratura neogreca all’Università La Sapienza. «Ogni traduzione - ci dice - è anche una lettura critica, essendo quella del poeta un’opera aperta». Raramente un artista ha ricevuto omaggio più sentito, a metà strada tra le parole e il loro suono capace di commuovere al di là del significato, come accade in musica.
La poesia di Elitis appartiene al futuro. Nella sua opera - di nuovo, come nella musica - si respira tensione verso una silenziosa, indicibile pace.

Il poeta la desidera, la insegue, qualche volta la ottiene, senza mai perdere la speranza che questa possa avverarsi anche per l’amata, in definitiva per tutti. Ma spesso Odisseas è solo. «Mi senti?» è l’intercalare affannoso di Monogramma. «È presto ancora in questo mondo amore mio/ per parlare di te e di me».

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