Elogio della norma

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Ora che non siamo più suggestionati dalle notizie di cronaca, ora che sappiamo come sono andate le cose senza più alcun dubbio, si può fare qualche riflessione su avvenimenti drammatici che subito ci impressionano e subito finiamo per archiviare quasi fossero normali incidenti della vita. Certo, rispetto alla mamma che butta in un cassonetto dell’immondizia il proprio figlio, la vicenda della «mamma di Lecco» con la sua lugubre messinscena si finisce per trovarla molto più appassionante. Per un po’ di tempo diventa un caso, mentre dei piccoli morti in un sacco di plastica, sul ciglio della strada o in qualche discarica soltanto un annuncio e un amen.
Ciò che dovrebbe far inorridire, disgustare, vergognare non è soltanto l’indifferenza con cui si apprendono crimini efferati, come appunto l’infanticidio, o la curiosità morbosa suscitata dagli stessi crimini circonfusi però dal mistero giallo con cui sono stati perpetrati. Ma è soprattutto - io credo - quella rassegnazione che la gente manifesta di fronte a tali delitti: un atteggiamento che, drammaticamente, testimonia come ormai la vita umana venga trattata alla stregua di una semplice cosa che non vale niente, un fastidio di cui ci si può liberare quando si vuole. Insomma, cose che accadono - si pensa -, fatti che fanno parte dell’aspetto criminale della società, come i furti o le rapine: proprio così, la vita di un bambino non è considerata diversamente da un pacchetto di banconote rubate dalla tasca. Una cosa, semplicemente una cosa.
Già questo pensiero dovrebbe far inorridire; ma c’è perfino di peggio. È la giustificazione, l’umana comprensione.
A proposito della «mamma di Lecco», tra il mare di notizie e di pettegolezzi, era stata rilasciata questa dichiarazione su cui varrebbe la pena riflettere un momento: «L’unico posto in cui in prospettiva non ha senso tenerla (la mamma) è una galera: alla fine questa donna andrà aiutata a sopravvivere al suo gesto». Questa frase, pronunciata sotto prudente anonimato (così ci è stato riferito), appartiene a un operatore carcerario, a uno psicologo. È una valutazione che mi sembra orribile, complice dell’assassino. Se ci mettiamo, senza troppi sforzi, possiamo arrivare a giustificare tutto, anche crimini peggiori, perché si troverà sempre una circostanza che induce a supporre che, se le cose fossero andate in un altro modo, quel delitto non ci sarebbe stato. Ecco allora le litanie (soprattutto degli psicologi): poveretta, era depressa; poveretta, viene da una famiglia disastrosa; poveretta, nessuno l’ha aiutata, ecc., ecc.
Io, per la «mamma di Lecco», non ho nessuna pietà, come nessuna pietà avrò mai per quelle donne che si sbarazzano dei loro figli gettandoli in un cassonetto o in qualcosa del genere.
L’atteggiamento che si mostra disponibile alla comprensione, alla giustificazione finisce per mettere in secondo piano, o perfino ritenere irrilevante, il sacrificio, la responsabilità, la normalità. Come se i desideri fossero più importanti della realtà: si desidera tanto un figlio per se stessi, ma non si considera il suo diritto alla vita, all’educazione una volta che è nato. Ci si dimentica della realtà che pretende delle scelte, delle rinunce, dei sacrifici, che è, appunto, la normalità della vita.
Ma quante donne sono depresse, affaticate dal lavoro eppure cercano di curare i loro figli, crescerli con affetto! È a questa normalità anonima, silenziosa che deve andare la nostra comprensione, il nostro rispetto; è questa normalità che andrebbe difesa ed aiutata. E invece ecco alzarsi il coro dell’umana comprensione verso quelle criminali che credono che i propri desideri siano più importanti della realtà; ecco farsi largo la lacrimevole o dotta attenzione per quelle donne che sentono frustrate le proprie ambizioni, il proprio narcisismo e non trovano di meglio da fare che sbarazzarsi dell’impiccio, causa di tanti fastidi. Non importa, poi, se quell’impiccio è un bambino di pochi giorni, di pochi mesi.
Truppe di psicologi, di operatori sociali sono pronte a difendere con ragionamenti capziosi il gesto criminale perché, ovviamente, secondo loro, il vero criminale è la nostra società, responsabile di causare ogni efferatezza.

A loro dire, la colpa è sempre della società: e così ci si mette la coscienza a posto, dimenticando che questa società è ancora fatta, nella stragrande maggioranza, di persone che sanno cosa sia il sacrificio e la responsabilità, è fatta di persone normali.

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