Cultura e Spettacoli

Elsa, la pettegola che faceva tremare le gambe ai Vip

Maxwell, Parsons, Hopper: brutte e arroganti. Ma più famose delle star

Tutte e tre coltivarono in gioventù l’ambizione di diventare attrici, anzi star. Tutte e tre non avevano ricevuto il dono sfuggente, ma prelibato, della bellezza. Tutte e tre si dedicarono fino all’ultimo giorno della vita al gossip denigrando le doti di chi cadeva sotto gli strali di quella stampa di cui erano incontrastate sovrane. Tutte e tre, infine, furono stipendiate da quel William Randolph Hearst che Orson Welles ritrasse al vetriolo in Quarto potere.
Ma come passarono alla storia le tre terribili parche di nome Hedda Hopper, Louella Parsons ed Elsa Maxwell ce lo raccontano due libri che ne tramandano le bizze capricciose, la crudeltà gratuita e l’indiscutibile sense of humour. A Parigi Robert Laffont ha infatti appena lanciato sul mercato un brogliaccio redazionale, anonimo ma ghiotto, dedicato a Hedda e Louella elevate al titolo di Impératrices du rêve mentre da noi Rizzoli annuncia la riedizione di Ho sposato il mondo, il diario vergato nel lontano 1957 dalla pettegola per antonomasia Elsa Maxwell dove la «donna più brutta dell'evo moderno», come la definì George Bernard Shaw, sparlando e blandendo i Ricchi e Famosi del nostro pianeta si costruì fama imperitura.
In cosa consistesse l’originalità di una scrittura che privilegiava gli scandali veri o presunti del bel mondo ce lo rivela Elsa fin dalle prime battute. «Sono sempre stata orribile a vedersi - confessa con disarmante sincerità -. E quando compresi che nessun uomo si sarebbe mai prodigato nei miei confronti, puntai tutte le mie carte sul cervello, il solo organo del corpo umano che ci permette di vendicarsi del prossimo». Da subito nota nell’alta società di San Francisco per il modo tra arrogante e spavaldo in cui si proponeva ai potenti come organizzatrice di feste e avvenimenti pubblici dove politici e artisti avrebbero dato lustro a chi li avesse invitati, Elsa nullatenente senza fissa dimora, sprovvista di qualsiasi titolo di studio, divenne presto popolarissima. Al punto che non solo Alì Khan nel ’48 ricorse a lei per essere presentato a Rita Hayworth e, negli stessi anni, per imporsi alla casta snob di Park Avenue, Wallis Simpson, neoduchessa di Windsor, accettò di sfilare per beneficenza in un défilé organizzato a New York da Cecil Beaton, ma persino ministri e presidenti ricorrevano al suo sangue freddo per dirimere questioni spinose e imbarazzanti qui pro quo. Tra cui, memorabile, la revoca del provvedimento disciplinare a carico di un boss del calibro di Zanuck, accusato da Truman di aver corrotto il Senato profittando del suo grado di ex-ufficiale.
Dal canto suo, tra i verdi prati di Beverly Hills, Louella Parsons conduceva la sua guerra ad oltranza. Fin da quando approdò nel ’22 al New York American, il famoso quotidiano di Hearst, dove seguita da milioni di lettori scuciva e ricuciva come Penelope l’universo di celluloide in una rubrica che ogni giorno esaltava Marion Davies, amante del suo patron, e il giorno dopo denigrava Clark Gable e Carole Lombard rei di averla esclusa tra i testimoni alle loro nozze. Come si fosse insinuata nelle grazie dell’editore-padrone al punto di rendersi insostituibile braccio destro delle più spietate strategie, ce lo rivela il libro di Laffont. Dove apprendiamo stupiti che Louella, ospite fissa dello yacht del magnate, assistette più incuriosita che inorridita all’omicidio perpetrato da quest’ultimo sulla persona di Thomas Ince, il regista colpevole agli occhi di Hearst di aver tentato un approccio con la scipita Marion.
Ma anche una sovrana come Louella, alla quale i boss californiani concedevano esclusive con quarantotto ore d’anticipo, deve dopo tre lustri di dominio esclusivo subire gli strali velenosi della concorrenza. Che scoppia nel ’39 quando l’ex-ballerina di fila Elda Furry, presto ribattezzata Hedda Hopper, approda al Los Angeles Times. Bionda e longilinea mentre la rivale accusa un ingombrante doppio mento e il notevole peso di novanta chili, Hedda brucia le tappe e, sotto le ampie falde di uno dei cinquanta ridicolissimi copricapo che acquista regolarmente ogni anno, riesce ad ottenere la copertina di Time. E Louella? Dopo aver demolito Gene Tierney pubblicando la cartella clinica dell’attrice che, dopo vari ricoveri in clinica, finisce addirittura in manicomio, la Parsons, venduti a caro prezzo i suoi ricordi della Mecca del cinema, si fa fotografare mentre, con un sorriso radioso, imprime nel cemento le impronte delle mani e dei piedi al Grauman’s Chinese Theatre, onore mai in precedenza concesso a un rappresentante della stampa scandalistica.
Ma ormai Louella è una diva. Chi se non lei, tra un bacio e l’altro ai fotografi, regala perfidamente al pubblico l’incredibile nuova della gravidanza di Ingrid Bergman, sposa infedele «per amore di un comunista italiano di nome Rossellini»? E tuttavia, come faranno a fine carriera la Callas e la Tebaldi, anche Hedda e Louella pur di contrastare la pessima pubblicità che su di loro incombe dopo una veemente omelia contro la corruzione della stampa pronunciata dal cardinale Spellman decidono di riconciliarsi. Nel corso di un party pantagruelico offerto da Cyro’s tra un riso acre e una freddissima stretta di mano, le due dame si concedono ai reporter in un abbraccio che sembra lo scontro efferato di due tigri.

In una resa dei conti che, a fine anni Sessanta, suona come una campana a morto sulla golden era di un luogo chiamato Hollywood.

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