Verrà la morte e, solo allora, avrà i suoi occhi. Eluana è chiusa in una stanza buia e sorda, dove tutti parlano. È questa forse la cosa più terribile. Questo silenzio che non è silenzio, questa vita che non è vita, questa zona grigia dove tutto si confonde: natura, destino, coscienza, padri e figli, legge e morale, essere e non essere. Qui perfino Dio mostra agli uomini i suoi dubbi. Il limbo deve assomigliare a qualcosa del genere, un posto dove tutti hanno qualcosa da dire su di te e tu non sai, non vuoi, non puoi rispondere. Il limbo di Eluana comincia diciassette anni fa. È una mattina di gennaio e la ragazza arriva in coma profondo all’ospedale di Lecco. L’ultima cosa che ricorda è l’incidente. I medici pensano che bisogna strapparla alla morte. Fanno di tutto. Forse lei aveva già oltrepassato l’ultima linea, ma qualcosa la riporta indietro. Due rianimatori fanno chiaramente capire ai genitori che in questi casi bisogna attendere le prossime quarantotto ore. Saranno molto più lunghe. Quel corpo non vuole morire. Gli occhi di Eluana si aprono e si chiudono seguendo il ritmo del giorno e della notte, ma non ti vedono. Non c’è coscienza. Il suo cuore batte, il resto è sospeso nel nulla.
Eluana è prigioniera di questo lungo sonno e suo padre con lei. Lui tutore, lui con in mano il destino della figlia, giudice senza sentenza. Cosa avresti fatto tu al suo posto? Quello che forse fanno in molti, nel silenzio degli ospedali, dove basta uno sguardo e un gesto di pietà. È lì che i medici e i familiari fanno i conti con la propria coscienza, intima, senza parole, mentre la ragione cerca pezze d’appoggio e si confronta con quel segreto che chiamano morte. Qualcuno dice che il destino di Eluana è deragliato quando lei si è voltata indietro, quando la medicina ha strappato un frammento di questa vita all’aldilà. Forse i medici, quel giorno di gennaio, sono stati troppo bravi. E quelle quarantotto ore sono diventate eterne.
Ecco dopo quello che è successo. Il limbo di Eluana si è riempito di parole. È diventato un caso, pieno di simboli, bandiere, filosofie, religioni, battaglie politiche e giudiziarie. Eluana non era più Eluana, ma il corpo martoriato di uno scontro ideologico. È il diritto alla dolce morte o la sacralità della vita. È la ragione dei laici e la fede dei cattolici. È bianco e nero, guelfo e ghibellino. È processi, carte bollate, parlamenti, convenzioni Onu, ministri e fiaccolate. È la ricerca disperata di una clinica dove risolvere la pratica, con Udine che dice non possiamo rischiare, perché noi lavoriamo con la sanità pubblica e c’è il rischio che qualcosa fra tutte queste carte ci finisca sul muso. E qui c’è gente che lavora, bocche da sfamare: provate da un’altra parte. Magari in questa confusione di competenze tra Stato e Regioni c’è una in Emilia. L’odissea continua. La verità è che nessuno ha voglia di dare una risposta a questo fardello etico. È troppo pesante. È già un terremoto di cuore e nervi quando tocca l’individuo, il tuo prossimo, la persona che hai più cara al mondo. È già tragedia. È già rimorso. È già dolore. Qui si tratta di dare una risposta urbi et orbi. Prego signori, tracciate i confini della morte. Qualcuno un giorno lo farà, perché questo uomo ultramoderno appare sempre più fragile e delega alla legge e allo Stato ogni cosa, anche l’indirizzo preciso dell’ultima destinazione. Sì, magari il limite verrà tracciato, ma non in questo clima di barricate ideologiche.
Sono passati diciassette anni. La foto dove lei sorride sotto un cappello nero si è scolorita e non ha più uno sguardo. Non c’è per il padre un lutto da sublimare, un dolore atroce ma dai contorni definiti con cui convivere. In questa storia non c’è la parola fine. Non c’è mai un domani. È un altro limbo, metafisico, che spaventa ancora di più chi su questa terra passa le sue giornate, tirando avanti.
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