La coperta è sempre troppo corta e allora il governo ha deciso di tirarla un po’ di qua e un po’ di là. Si taglia all’ingresso, parcheggiando nelle celle di sicurezza chi era destinato a stare in galera pochi giorni; si taglia in uscita, mandando a casa chi intravede la fine della pena. I numeri restano quelli di un disastro: in galera, nei 206 penitenziari italiani, al 31 gennaio 2012 erano pigiate 66.973 persone (in realtà oggi sono ancora di più). E di queste solo 38.097 scontano una pena definitiva.
Il 40 per cento abbondante è dentro in un regime di custodia cautelare, insomma si sta in carcere in attesa del verdetto finale e si può sempre sperare in un ribaltamento davanti alla corte di secondo o terzo grado. Per dirla con Carlo Nordio, magistrato brillante e autore di numerosi saggi, «oggi in Italia si entra in carcere da innocenti e si torna liberi da colpevoli». Un gioco dell’oca, un paradosso, una giustizia alla rovescia che racchiude però molte verità.
I processi nel nostro Paese durano tanto, troppo, e allora gli imputati languono dietro le sbarre per qualche settimana o per qualche mese, poi inevitabilmente escono. E spesso non tornano più in cella, nemmeno quando all’orizzonte si affaccia la sentenza irrevocabile: indulti e prescrizioni tagliano l’erba della pena fino a ridurla a un moncherino. E combinati talvolta al cosiddetto presofferto (appunto il carcere in custodia cautelare) portano i detenuti addirittura in credito con lo Stato. Oppure se proprio devono scontare la pena i carcerati iniziano subito i calcoli: il countdown verso la libertà. Qualcosa, anzi molto, non funziona.
Prendiamo il più grave scandalo finanziario della storia repubblicana: quello della Parmalat. Il nocciolo duro, la bancarotta, è sotto esame alla corte d’appello di Bologna. Calisto Tanzi, giusto un mese fa, è entrato in aula in manette. Ma attenzione: la pena, 18 anni, non è definitiva, è solo quella di primo grado. Piccolo dettaglio, il patron dell’azienda di Collecchio venne arrestato per il colossale buco da 14 miliardi di euro il 26 dicembre 2003.
Ci avviciniamo alla soglia dell’indecenza dei dieci anni. Questa storia dovrebbe essere sepolta in qualche archivio, invece vive ancora nella carne dei protagonisti e soprattutto delle vittime. Però Tanzi, in un filone secondario anche se importante, quello dell’aggiotaggio, è già stato giudicato a Milano e qui la giustizia ha fatto prima: Tanzi ha sulle spalle otto anni che ormai non gli leverà più nessuno. Insomma, è un detenuto in attesa di giustizia ma è anche un definitivo.
Appartiene all’insieme dei 27.383 carcerati in attesa di giudizio e contemporaneamente a quello dei 38.097 che hanno cucita addosso una pena irrevocabile. E per essere più precisi, è dentro il sottoinsieme dei 7.343 carcerati che combattono in appello contro una condanna di primo grado.
Come si vede, siamo dentro un caos inestricabile. Ora si prevede che con lo svuota carceri 3.327 detenuti lasceranno le celle per trascorrere gli ultimi 18 mesi di pena blindati agli arresti domiciliari. Ecco che si tira la coperta da questa parte, naturalmente dimenticando tutti i nobili principi e gli ipocriti bla bla sulla funzione rieducativa della pena e del carcere.
Ma il grosso delle chance di miglioramento arriva dall’altro segmento. Secondo il ministero (sempre con i dati relativi al 31 gennaio scorso) 13.854 detenuti sono dentro in attesa del giudizio di primo grado.
In sostanza un buon 20 per cento della popolazione carceraria rimane in prigione per un amen e poi esce. Il turn over - anche se le cifre sono un po’ ballerine - è impressionante: si parla di cinquantamila persone l’anno che assaggiano le sbarre per una manciata di giorni o di settimane, poi escono e non si vedono più, oppure (ma è raro) rimettono piede in galera anni e anni dopo per scontare la pena finalmente confermata dalla Cassazione.
L’opinione pubblica è disorientata perché rivede sfilare in manette a distanza di tanto tempo una Wanna Marchi o un’Annamaria Franzoni. E si chiede come mai queste storie si siano impantanate per tutto quel tempo. È proprio dentro quella palude che affonda la giustizia italiana.
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