Emergenza nomadi

da Roma

Nessun bambino va a scuola, nessun bambino è vaccinato. Sulle scalette del camper della Croce rossa c’è una ressa di piccoli rom che vogliono salire. Un po’ più lontani stanno quelli che appena camminano, a zonzo per il campo con i piedini immersi in pozze nauseanti.
Alle sei di sera arrivano gli ultimi pulmini fracassati: portelli semiaperti, targhe ciondolanti, adolescenti che ridono guardando curiosi dai finestrini. «La foto, a me e alla mia famiglia la foto», saltano giù e mettono le mani sulla macchinetta fotografica per girarla, guardarsi nello schermo a colori. «Chi è la tua famiglia?», domanda una volontaria della Croce rossa a una bimbetta con la treccia arruffata. La piccola indica una donna anziana. «È tua nonna?». Fa cenno di sì. La donna e la bambina si stringono la mano.
Non prendono impronte i volontari della Croce rossa, ma ricostruiscono le famiglie, segnano nomi e cognomi, fanno foto e tessere da utilizzare in ambulatori predisposti proprio per la cura dei nomadi di Roma. Il film del censimento al campo del Corviale andrebbe spedito alla Commissione europea, immagine di un lavoro difficile che non ha niente a che fare con il razzismo, più forte, forse, di qualsiasi risposta scritta o delle repliche politiche.
Questo campo, censito dalla Croce rossa di Roma su disposizione del ministero dell’Interno, è abitato da rom di Bosnia, esempio di come il «censimento» non sia mirato contro l’etnia di una nazione, ma serva a dare nomi, assistenza sanitaria e educazione a gente senza regole che si tenta di integrare.
Gente a volte anche senza un nome scritto: «Gli adulti hanno i documenti, ma i bambini no. Per ora ricostruiamo i nuclei familiari con l’autodichiarazione», racconta una volontaria. È capitato che un paio di automobilisti passassero e gridassero: «Non li aiutate!». E addirittura: «Li dovete bruciare». Opera Nomadi sostiene che «alcune centinaia di rom» sono scappati da Roma in questi giorni per paura dei controlli. Ma il lavoro va avanti, nell’inferno del decimo campo nomadi censito da quando è partito il piano del governo.
L’insediamento sorge sotto il «serpentone», come lo chiamano i romani, un doppio edificio lungo oltre 900 metri costruito nel quartiere Portuense e che doveva essere la prima cittadella «satellite», con scuole e servizi, della capitale. Tra il Corviale e il campo nomadi pascolano cavalli e pecore, c’è una desolante anomalia rispetto ai quartieri vicini in questa zona dove si allevano animali da fattoria e i rom crescono i loro figli.
Bambini senza cure né scuola: «I bambini non sono vaccinati. Alcuni degli adulti sì, perché avevano fatto il vaccino quando non erano ancora in Italia», spiega la volontaria della Cri. A tutti viene consegnata una tesserina, con la foto e un numero corrispondente. Prima si pensa ai vaccini, poi dovrà partire il più faticoso processo di scolarizzazione. Il censimento non è ancora finito, ma della cinquantina di minorenni saliti sul camper nessuno va a scuola. Stanno tutto il giorno fuori con i genitori e non tornano prima del tramonto. «Chiedono l’elemosina», conferma un volontario davanti a un’ambulanza. Anche qui c’è la fila: chi lamenta un mal di pancia, chi la puntura di una vespa. Vogliono medicine.
I ragazzini si avvicinano e dicono seri: «No zingari». «Rom di Bosnia, rom di Bosnia», precisano gli uomini. Quando sentono la parola romeni aggrottano le sopracciglia: «Qui non ci sono romeni». Alla Croce rossa raccontano che la convivenza non è facile. Capita sempre più spesso di sedare risse con feriti tra etnie diverse di nomadi a Roma.

Romeni e bosniaci, c’è una battaglia tra campi che emerge girando per gli insediamenti dei quartieri più desolati della città. Ad agosto ci sono da visitare almeno altri quaranta insediamenti, se qualcuno non verrà smontato prima dai nomadi in fuga.

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