Gli emiri in ritirata dalle banche Usa

Poche righe d’agenzia, giusto per comunicare l’uscita da Citigroup del fondo sovrano del Kuwait, con una plusvalenza da 1,1 miliardi di dollari su un investimento realizzato neppure un paio d’anni fa. Per quanto sintetica, la notizia sembra confermare il cambio di strategia da parte dei sovereign fund, le stampelle mediorientali e asiatiche su cui si è poggiato il sistema finanziario mondiale per non cadere nel precipizio della crisi.
Spesso mal sopportati da alcuni governi, considerati un pericolo per la democrazia da molti economisti, questi strumenti di emanazione statale sono usciti dalla recessione con le ossa rotte. Uno studio di Deutsche Bank ha stimato perdite complessive attorno ai 600 miliardi di dollari provocate dalla peggiore congiuntura dagli anni Trenta, e lo stesso fondo kuwaitiano avrebbe «bruciato» oltre 30 miliardi. Da qualche mese, si sta così delineando una sorta di exit strategy che ha come proprio fulcro la rimozione degli investimenti nelle grandi banche americane. In questa direzione si sono già mossi il fondo governativo di Singapore, Temasek, uscito completamente da Bank of America; quello di Abu Dhabi ha convertito le obbligazioni di Barclays e ha liquidato le azioni ordinarie ottenute, mentre il Qatar Holdings ha ridotto la propria quota di partecipazione in Barclays dal 6,4% al 5,8 per cento.
Il caso Dubai, con l’emergere di un debito da quasi 60 miliardi di dollari da parte della principale holding dell’Emirato (che secondo l’Fmi non colpirà il sistema finanziario globale perché gli Emirati arabi uniti hanno le risorse «per affrontare facilmente queste questioni»), non dovrebbe modificare i piani dei fondi sovrani, che se da un lato stanno procedendo alla ritirata dagli asset finanziari Usa, dall’altro sono molto attivi altrove. L’automobile ne è l’esempio più chiaro, viste le potenzialità di sviluppo (e quindi di guadagno) della parte ecologica. Una quota del 5% di Ferrari è finita nella cassaforte di Abu Dabhi, che controlla anche il 4% del produttore Usa di auto elettriche Tesla e, soprattutto, è il primo azionista di Daimler, seguito dal Kuwait, cui fa capo anche la metà di Aston Martin. Investimento tedesco anche per il Qatar, che ha puntato su Volkswagen e Porsche, mentre l’Emirato del Bahrain ha messo le mani sul 30% della McLaren.
Un occhio dei fondi sovrani del Golfo Persico è inoltre rivolto verso l’Estremo Oriente, dove si stanno studiando opportunità sui mercati cinese, malese, indiano, vietnamita e indonesiano.

I cinesi stanno invece investendo in maniera massiccia nelle materie prime, settore in cui sono stati spesi oltre 5 miliardi di dollari dall’inizio dell’anno, e nell’alimentare con l’acquisizione di aziende agricole africane e sudamericane.

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