Politica

Era manager al «Corriere» ora vive tra fienile e barca

«Una sdraio in tek a 99 euro? Regalata! Mi sono fiondato al centro commerciale di Sarzana. Articolo esaurito. Era solo un prodotto-civetta per attirare clienti con l’offerta speciale. Si può essere più fessi? È stato il mio mestiere per anni, eppure ci sono cascato anch’io. Tornato quassù, il giramento di balle era talmente forte che dopo due ore mi crogiolavo al sole su quella sdraio che vede lì. Fatta con le mie mani». Simone Perotti non è un falegname. Dopo la laurea in lettere, ha lavorato a Roma nel campo della comunicazione. Ha esordito all’Adnkronos servizi. Faceva il lobbista. Avvicinava politici e giornalisti, orientava le loro scelte, insomma brigava per far uscire sulla stampa informazioni gradite ai suoi committenti: ministero della Difesa, colossi dell’energia, multinazionali del farmaco. Poi è stato il primo direttore delle relazioni esterne alla Sisal. Ha curato il lancio del Superenalotto. Quindi il trasferimento a Milano, dove ha fatto il direttore della comunicazione di Rcs Mediagroup. In soldoni: dalle poppe di Elisabetta Canalis sul calendario di Max ai comunicati ufficiali del patto di sindacato del Corriere della Sera. Interloquiva con i direttori di via Solferino, Paolo Mieli e Ferruccio de Bortoli, e riportava direttamente all’amministratore delegato Maurizio Romiti.
Da quattro anni Perotti ha rinunciato a stipendio e carriera. Per campare non spende più di 850 euro al mese. S’è comprato una barca a vela con un solo albero, che sulla prua reca scritto Faamu Sami, cioè «colei che fa bruciare il mare», dal nome della principessa delle isole Samoa che alla fine del 1896 rapì il cuore dello statunitense Joshua Slocum, primo navigatore a effettuare in solitaria la circumnavigazione del globo. Quando non fa da skipper a chi affitta il suo sloop per una crociera, pulisce le barche degli altri nel porto della Spezia, a 90 euro l’una, Iva inclusa. Oppure restaura mobili, realizza sculture, va in giro a pitturare case.
L’ex manager vive cinque mesi in acqua e sette mesi in terra. Ha riattato un fienile sulle colline di Bolano, otto chilometri dal mare, in una frazione con meno di 20 abitanti fondata nel 1600 attorno a una chiesetta da pirati così devoti da stabilire che vi si celebrasse ogni anno una messa il 1° maggio e che in ciascuna generazione dei loro discendenti vi fosse almeno un prete. Buona parte dell’arredamento se l’è costruito da solo, con materiali di recupero. Ora però è alle prese con un dilemma lacerante: «È da un anno che resisto alla tentazione di comprarmi un trapano nuovo, perché quello che ho perde colpi. Magari riesco ad aprirlo e a sostituire le batterie interne».
Perotti ricorda perfettamente il giorno e l’ora in cui decise che la vita dell’arrampicatore sociale non gli si addiceva: «Erano le 7.35 del 4 luglio 1997. Avevo 32 anni e mezzo ed ero in auto sul Grande raccordo anulare di Roma. Fermo. Col sole che già picchiava e l’aria condizionata a manetta. Il tragitto della mia vita: Frascati, dove sono nato, uscita Tiburtina, piazza del Popolo. Intorno a me solo macchine in coda. Io al volante con la divisa d’ordinanza, camicia e cravatta. I cellulari già accesi. Ho pensato: così non va». Avrebbe speso i successivi dieci anni per prepararsi la via di fuga.
In questo modo Perotti è diventato suo malgrado il profeta italiano del downshifting, «manco sapevo che esistesse, questa parola, l’ho letta per la prima volta sulla Civiltà cattolica, la rivista dei gesuiti, il che per un ateo anticlericale quale sono è una bella contraddizione, devo ammetterlo». Alla lettera significa «scalare la marcia». Detto in altri termini, come lavorare meno, spendere meno, consumare meno e godersi di più la vita. Il suo verbo, riassunto per l’editore Chiarelettere in Adesso basta e Avanti tutta, ha venduto 70.000 copie, più del romanzo Uomini senza vento uscito da Garzanti nel 2010. I diritti cinematografici del primo libro sono stati acquistati dalla Fandango, che intende ricavarci un film, con notevole beneficio per le finanze del downshifter, perfetta antitesi dello yuppie che egli fu negli anni Ottanta. L’autore ha già ricevuto 100.000 e-mail da lettori più o meno invidiosi.
Qualcuno le ha dato del pazzo?
«Esplicitamente solo il 5 per cento. La contestazione è più subdola: pensano che abbia accumulato quanto basta per vivere di rendita».
Non è vero?
«Secondo lei se fosse vero andrei a piegare la schiena con gli strofinacci sulle barche degli altri? Ma anche quei 95 su 100 che si complimentano in realtà non vogliono cambiare vita. Molto meglio alzarsi la mattina, andare in un luogo dove sei atteso, dove non hai problemi di ruolo, dove trovi una scrivania e qualcuno che si aspetta da te una prestazione mediocre, non più di un terzo di ciò che sapresti fare. È questo il dramma della società moderna».
Ammetterà che 60 milioni d’italiani non potrebbero fare la vita che fa lei.
«Se non ci provano, non lo sapranno mai. Dire “non ne sono capace”, non è dignitoso. Prima provaci cento volte e poi, se non ci riesci, avrai tutta la mia comprensione. Altrimenti non lamentarti. Io un piano B non ce l’avevo, me lo sono dovuto inventare».
Ma perché è scappato?
«Non era la mia vita. Di mio avrei voluto insegnare all’università per poter scrivere. I primi tre romanzi sono stato costretto a buttarli giù all’alba, prima d’andare in ufficio. Ma come facevo a dire ai miei genitori che volevo mollare la carriera? Sono genovesi, mi strangolavano. Per mio padre, diventato dirigente della Michelin con molti sacrifici, rappresentavo una sorta di riscatto. Il giorno che Maurizio Romiti mi costrinse a rimanere a Milano, facendomi perdere la finale di Champions League del Milan a Manchester per colpa di una riunione del patto di sindacato di Rcs che poi nemmeno si svolse, me lo ricordo come un momento di rivolta interiore».
Quanto guadagnava?
«Da quando prendevo 68.000 lire lorde al giorno come free-lance fino agli ultimi stipendi, una media potrebbe essere 4.000 euro al mese. Ma non vorrei che si equivocasse: rinunciando a lavoro, busta paga e benefit, ho lasciato non tanto quello che avevo bensì quello che sarebbe venuto dopo in termini di ruolo, carriera e denaro. Tra i 40 e i 50 anni avrei raccolto i frutti di un ventennio di lavoro e di relazioni. La gente non sa che metà di ciò che avevo l’ho dovuta versare alla mia ex moglie e che a Milano sperperavo quasi l’intero stipendio in una vita dispendiosa».
Mentre adesso?
«Per mangiare bene, non più di 5 euro al giorno. Cucino io. Ho 67 piante di pomodoro, abbastanza per sfamare un reggimento: i semi sono costati 3 euro e mezzo. Mi riscaldo con la legna del mio bosco, che è gratis, a parte la fatica per tagliarla. Ho una Hyundai Terracan che ha dieci anni e 200.000 chilometri, comprata usata su Ebay per 8.000 euro da un ragazzo che doveva saldare i debiti di un fallimento. Lo stereo Akai è del 1977 e funziona benone. Il divano l’ho comprato nel 1992. La stampante a getto d’inchiostro è del 1999. Di elettricità spendo 16 euro a bimestre. Le cinque lampadine che uso di più sono alimentate da un pannello solare a 12 volt. Non voglio essere come il palazzo dell’Eni all’Eur di Roma, dove le luci negli uffici sono accese anche di notte perché un grattacielo illuminato è più bello. Insomma, spero che sia chiaro il valore politico, lo scriva fra virgolette, che io attribuisco alla mia scelta: andare via equivale a togliere la spalla da sotto l’architrave di questo sistema. Significa dirgli: “Non nel mio nome”. Invece tutti coloro che lo criticano di solito ne fanno parte e lo sostengono».
Le sarebbe convenuto di più abitare in barca tutto l’anno.
«Dovendo affittarla, non avrei potuto lasciare in giro le mie mutande. E poi nei porti vedo soltanto bare. Sono gli yacht di chi lavora giorno e notte per pagarseli e quindi non può mai goderseli. La morte del sogno».
Il suo quant’è costato?
«È un sogno in società con due amici: 130.000 euro. La barca ha lavorato fin dal primo giorno e s’è pagata da sola il leasing, concluso un anno fa».
Lei scrive in Adesso basta: «Ho anche notato che abbiamo tutti troppe cose, che vivremmo meglio con meno oggetti. Chi ha molti soldi teme la crisi, fibrilla per le oscillazioni di Borsa, studia come difendere le sue proprietà». Sembra una lezione già ascoltata: «Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tignola e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano».
«È così. Roba vecchia ma ancora attuale. Da Seneca a Enrico Berlinguer, passando per Gesù Cristo, Sant’Agostino, La vita agra di Luciano Biancardi, tranne Céline e pochi altri, l’hanno detto tutti. La novità non c’è. È l’applicazione pratica a essere nuova. Chi parla tanto di new age, non vive così, si limita ad ascoltare i Cd con gli scrosci d’acqua».
«Chi guadagna 3.500 euro al mese può risparmiarne più di 30.000 all’anno», secondo i suoi calcoli. «In questo modo si passa da 390.000 euro in 12 anni a 440.000. Eccoci già in zona downshifting». Meglio ancora se uno accantona «710.400 euro in 12 anni, ovvero circa 849.000 euro inclusi gli interessi». Ma si rende conto che è un traguardo al quale un padre di famiglia arriva, se gli va di lusso, alla vigilia del decesso?
«È stato un errore di comunicazione. Pensavo che i più difficili da convincere fossero quelli che potevano permettersi di cambiare vita. Non è così. Io non ho staccato perché avevo una riserva da parte, ma solo perché ho adottato uno schema di sopravvivenza a basso costo. Come ex dirigente con solo 17 anni di contributi, non avrò la pensione. E ho calcolato, applicando un mio personale algoritmo di erosione, che quel poco che ho in banca non mi consentirà di arrivare oltre gli 83 anni».
A quel punto che farà? Si sparerà?
«Confido nell’inflazione. Nel senso che il mio indice non è quello ufficiale. Nel paniere dell’Istat c’è il salmone affumicato: mai mangiato. Preferisco il pesce azzurro: 6 euro il chilo. Già a Milano mi ero accorto che nei supermercati i prodotti raggiungibili sugli scaffali senza doversi piegare costano dal 15 al 30 per cento in più. In corso Buenos Aires ero arrivato a pagare l’insalata nelle buste 13 euro al chilo. Quella da lavare costa un euro e mezzo, qui ce l’ho gratis a covoni. Il mio tasso d’inflazione non supera l’1 per cento. Quindi col 3 lordo d’interesse, che ti danno su qualsiasi conto di deposito, la sfango».
E se falliscono le banche?
«Tra i fregati, sarò il meno fregato. Io vivo già in crisi, non compro niente, mai, piuttosto mi taglio una mano. Anche perché tutto quello che interessa a me non è vendita».
Cioè?
«Non avere responsabilità, pesi sul cuore o affari di cui dovermi occupare. L’amicizia. La possibilità di andare a salutare mia madre prima che muoia. L’amore di Manuela, comunicatrice d’azienda, che nei week-end viene a trovarmi da Milano».
Ecco l’uomo che favorirà la ripresa dei consumi...
«Dobbiamo decrescere, non crescere. Noi siamo un popolo di gente povera, lo siamo sempre stati, non abbiamo ricchezze naturali. Ma perché ci comportiamo da ricchi, se non lo siamo? Eravamo il popolo del sole, della pizza, del mandolino e della felicità proprio perché non avevamo niente. Ogni anno gli italiani comprano 23 milioni di telefonini. Cos’è? Gli si guastano tutti insieme?».
Per cui quando i politici parlano di crescita qual è la sua reazione?
«Sentirla invocare dalla sinistra è irritante, e glielo dice uno che purtroppo ha sempre votato per il centrosinistra. Già Berlinguer nel lontano 1977 ci invitava a vedere nell’austerity petrolifera una grande opportunità per pensare, dopo i fallimenti del socialismo e del capitalismo, a un nuovo modello di sobrietà che prendesse il buono dell’uno e dell’altro. È mai possibile che solo una rivista americana, The Nation, sia riuscita a mettere insieme un think tank per cercare questa terza via, mentre a Barack Obama e a noi, i nipotini di Leonardo da Vinci, non è nemmeno passato per la testa?».
Vorrei comunque informarla che qui il problema non è smettere di lavorare, caro Perotti, ma cominciare. Sa quanti giovani non trovano un posto di lavoro?
«Io li esorto a evitare come la peste di farsi assumere, perché quell’assunzione inghiotte una parte del loro stipendio col pretesto di alimentare una pensione che non incasseranno mai. Puntino su un contratto meno garantito, che però preveda il netto più alto possibile in busta paga».
Certo che fondare un’agenzia per aiutare le persone a «scollocarsi», come lei suggerisce, mi pare una bestemmia, in tempi di disoccupazione.
«I più furbi hanno mangiato la foglia, mi scrivono dall’ufficio: “Basta, mi dimetto”. Ed è un impoverimento tremendo, perché sono i più bravi. L’ho detto ai direttori del personale di alcune grandi aziende: rassegnatevi, con i soldi non comprerete più nessuno. Mi hanno dato ragione. E ci credo: sono loro i primi a voler scappare».
(568. Continua)
stefano.

lorenzetto@ilgiornale.it

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