Era una regina nel canto. E una schiava nella vita

Voce unica, corpo sexy, carattere fragile. Dalle chiese gospel al Guinness dei primati, la cantante ha venduto duecento milioni di dischi. Ma non le è bastato per trovare la felicità

Era una regina nel canto. E una schiava nella vita

Nel suo ultimo album, I Look to You, cantava: «Sono caduta e sono crollata ma non mi sono spezzata, ho superato tutto il dolore. Eppure Whitney Houston non è riuscita a uscire dal suo inferno personale. Se n’è andata a 48 anni in una stanza d’albergo di Beverly Hills la notte prima dei Grammy Awards, l’Oscar della musica che nel 1986 la vide trionfare come nuova regina del soul e dello r’n’b. Un esordio travolgente quello di Whitney bella, sensuale (da ragazzina era stata modella) dalla voce esplosiva da tre ottave e un semitono di emozioni sostenuta da un bruciante senso del racconto, da un successo tanto immediato e duraturo (quasi 200 milioni di album venduti, non a caso inserita nel Guinness dei primati per numero di premi ricevuti) da far scrivere alla rivista Rolling Stone: «L’impatto di Whitney sullo r’n’b è stato talmente pervasivo, che sembra che le altre cantanti esistano o come conseguenza della sua esistenza o come reazione a lei». Senza di lei non ci sarebbero state Mariah Carey (lanciata come la sua più agguerrita rivale), Mary J. Blige, Toni Braxton fino a Beyonce.
Un destino scritto nel Dna quello di Whitney, figlia della grande cantante gospel Cissy Houston, cugina di Dionne Warwick, battezzata artisticamente da Aretha Franklin, si fa le ossa nelle chiese nere, accompagna artisti del calibro di Chaka Khan e Jermaine Jackson, passa ai club di New York dove viene scoperta dal guru della discografia Clive Davis che dirà: «La prima volta che l’ho sentita cantare è stato come un pugno nello stomaco». Era il 1985. Da lì a pochi mesi il trionfo con l’album di esordio Whitney Houston, che le regala il primo di una lunga serie di Grammy e singoli milionari come Saving All My Love For You, How Will I Know, Greatest Love of All. Il seguito, Whitney (con la ballad I Wanna Dance With Somebody) è ancor più dirompente con 20 milioni di copie vendute, nove dischi di platino e il titolo di unico album straniero (insieme a True Blood di Madonna e Bad di Michael Jackson) a vendere più di un milione di copie in Italia, quell’Italia dove, nel 1987, cantò All at Once a Sanremo e, a furor di popolo, concesse l’unico bis nella storia del Festival (e nel 2009 apparve per l’ultima volta da noi a X Factor).
Che paradosso la vita e la carriera di Whitney! Così amata dal pubblico nonostante le sue tragedie personali, e nonostante il suo ultimo vero successo risalga al 1992, quando recitò in The Bodyguard, con Kevin Costner, sbancando i botteghini di tutto il mondo e interpretando se stessa e lanciando un classico come I Will Always Love You (della cantante country Dolly Parton) che rimase primo in classifica per 14 settimane.
Da allora cachet milionari ma molto meno sostanza; come se Whitney fosse appagata, o consumata, o travolta dai suoi drammi personali. Anche sfortunata nello scegliere un marito come Bobby Brown, manesco e picchiatore, che l’ha trasformata in una schiava. E poi la tossicodipendenza e il declino, ancor più atroce sulla pelle di una bellissima donna come lei. Il tunnel della droga, le continue riabilitazioni, le crisi psicologiche mettono in crisi quella voce che «era un dono di Dio». Ha provato in tutti i modi a combatterla, fino a pochi giorni fa, con tenacia (o con disperazione). Nel 2010 è tornata con l’appoggio del gran maestro del pop Davis e con la benedizone di Oprah Winfrey che le ha lavato la coscienza con una seguitissima intervista in tv. Ma i concerti di quell’anno furono un disastro. Annullati gli show europei per un infezione alle vie respiratorie, imbarazzanti le esibizioni in Australia (a Brisbane qualcuno tra il pubblico disse: «Non avrebbe potuto intrattenere un morto»). Il canto era la sua ultima risorsa, l’àncora cui aggrapparsi... Ci ha provato ancora l’altroieri, per esibirsi ai Grammy come ospite d’onore. Ha tenuto un concerto preparatorio insieme a Kelly Price interpretando il gospel Jesus Love Me. È apparsa magrissima, sofferente, con voce debole e smunta, ma pronta a salire sul palco, contro tutto e contro tutti, per l’ennesima volta. Ieri sera ai Grammy, invece, Jennifer Hudson ha cantato l’addio alla regina del soul.

L’ex marito Bobby Brown, che era in scena con la sua band New Edition, non ha annullato lo spettacolo ma - bontà sua - ha detto: «Ti amo Whitney». Per rivederla bisogna aspettare agosto, quando uscirà il film Sparkle, biografia delle Supremes, che segna il suo ritorno sullo schermo dopo 16 anni.

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