Erano accusati di aver sabotato la Fiat Riassunti dai giudici

Ribaltata in appello la sentenza che aveva giudicato legittimo il licenziamento di tre operai. Il Lingotto indignato fa ricorso, la Fiom inneggia all’articolo 18

Erano accusati  di aver sabotato la Fiat  Riassunti dai giudici

Il commento rivelatore arriva da Oliviero Diliberto, leader dei Comunisti italiani e da Giorgio Airaudo (Fiom): «Dovrebbero fare tesoro dell’odissea di questi operai tutti quelli che oggi attaccano l’articolo 18». Non si parla del «18» nella sentenza della Corte d’appello di Potenza che ordina alla Fiat di reintegrare tre operai licenziati a Melfi. Ma il verdetto pro-sindacato arriva nel pieno delle polemiche sulla libertà di licenziamento e alla vigilia di una grande manifestazione di piazza della Fiom.

È l’articolo 18 la posta in gioco. Il mantenimento delle tutele sindacali a ogni costo, la lotta alla flessibilità sul lavoro. La sentenza di Potenza si inserisce nel duro braccio di ferro tra il governo Monti e le confederazioni, una prova di forza dalla quale non si vede un compromesso d’uscita. In questa fase, come osserva Diliberto - e con lui la sinistra massimalista di Vendola e la Cgil - il verdetto (non ancora definitivo) dei magistrati lucani suona come un avvertimento. Non è difficile capire quale sarà l’orientamento delle toghe.

La vicenda esplose nell’estate del 2010, mentre era in corso la vertenza sul destino dello stabilimento Fiat di Pomigliano d’Arco. In quel clima difficile che contagiava tutte le fabbriche del Lingotto, si aprì un contenzioso anche sui carichi di lavoro a Melfi. Durante uno sciopero interno, tre operai furono accusati dall’azienda di aver bloccato un carrello a lato della linea produttiva, boicottando la catena di montaggio. Tre tute blu (Giovanni Barozzino, Antonio Lamorte e Marco Pignatelli) furono licenziate.
Un mese dopo la decisione della Fiat, il giudice del lavoro bloccò il provvedimento con procedura d’urgenza considerandolo antisindacale. I tre furono reintegrati. Ma Torino non li riammise in fabbrica: come previsto dalla legge, preferì reintegrarli nello stipendio ma non nelle mansioni. Li pagò per non lavorare, per tenerli lontani dalle linee di montaggio della Punto.

Il 14 luglio scorso, tuttavia, il tribunale di Potenza accolse il ricorso della Fiat contro il giudice del lavoro, il cui orientamento fu ribaltato. Per i tre (due dei quali sono delegati della Fiom) scattò di nuovo il licenziamento. A quel punto fu la federazione dei metalmeccanici della Cgil a rivolgersi ancora alle aule di giustizia.
Quello di ieri è dunque il terzo pronunciamento di una corte sui licenziamenti di Melfi, il secondo che dà torto alla Fiat. L’azienda guidata da Sergio Marchionne proprio ieri aveva annunciato una parziale chiusura dello stabilimento di Melfi in marzo e aprile (con conseguente cassa integrazione per i cinquemila operai) per «adeguare la produzione ai flussi di mercato». Che non fanno sognare il Lingotto.

La Fiat ha annunciato un nuovo ricorso, questa volta in Cassazione. «Seguendo la linea già tenuta nei precedenti gradi di giudizio - si legge in una nota del Lingotto - l’azienda non intende fare commenti».

Essa tuttavia «considera inaccettabili comportamenti come quelli dei tre lavoratori e proseguirà le azioni per impedire che simili condotte si ripetano». Per il momento, riprenderà a pagarli senza metterli all’opera. Ma loro, tra una lacrima e un abbraccio dei colleghi, dopo la sentenza hanno assicurato: «Noi vogliamo solo lavorare».

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