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L'Italia abbandona pure il ferito: "Gli spari, poi il mio occhio..."

Mohsen Enterzary è stato ferito mentre era al servizio della mitica Task Force 45: "I talebani sono pronti a uccidermi"

L'Italia abbandona pure il ferito: "Gli spari, poi il mio occhio..."

"Stavamo ripiegando con alcuni soldati afghani e tre militari dei corpi speciali italiani della squadra di trenta uomini della Task force 45 impegnata nella caccia a un comandante talebano", racconta Mohsen Enterzary da Kabul. Il 9 giugno 2012, poco più che ventenne, lavorava come interprete da oltre un anno al fianco dei militari italiani nelle missioni più pericolose. "I talebani ci hanno investito con una valanga di fuoco - ricorda il coraggioso traduttore - Uno dei primi proiettili mi ha colpito nella parte sinistra della testa. Per alcuni minuti ho perso i sensi. Poi mi sono ripreso, sanguinante, ma tutt’attorno continuavano a sparare. Ricordo bene i fischi delle pallottole". Al suo fianco era rimasto un poliziotto afghano, un amico, che dopo un'ora riuscì a tirarlo fuori dall’imboscata. I soldati italiani intervennero con il primo soccorso fino all’evacuazione via elicottero. A Kandahar, nell’ospedale americano, gli salvarono la vita estraendo il proiettile dalla testa. "Ho perso la vista dall’occhio sinistro, diversi denti, la mascella è rimasta deformata per sempre e ho anche l’udito che non va bene", spiega Enterzary, che oggi si è rifatto una vita come giovane ingegnere lavorando al ministero dell’Energia nella capitale afghana. "Per anni ho cercato di mettermi in contatto con gli italiani chiedendo aiuto e protezione - spiega l’ex interprete - Volevo solo una raccomandazione per il visto e lasciare l’Afghanistan dopo avere versato il mio sangue per voi". Nessuno ha risposto o si è fatto sentire, neppure per sapere se fosse vivo o morto, nonostante la Task force 45 gli avesse rilasciato, prima di venir ferito, un attestato "in riconoscimento della dedizione e del grande aiuto per il successo delle operazioni". La firma è del comandante del gruppo Alpha "Condor" a Farah, il 25 novembre 2011, con sullo sfondo una foto di combattimento dei nostri corpi speciali in Afghanistan.

Enterzary fa parte dei primi 35 interpreti traditi e abbandonati dagli italiani, che hanno lavorato per anni al fianco dei nostri soldati, ma erano stati reclutati e continuavano ad essere sul libro paga di Mission essential, un’agenzia di sicurezza Usa. Per questo motivo sono rimasti tagliati fuori dalla protezione garantita ad altri traduttori. "Gli americani mi hanno mandato in India per ulteriori interventi chirurgici e mentre ero in ospedale ferito gravemente mi pagavano 300 dollari al mese. Poi sono stato licenziato", racconta Enterzary con un filo di tristezza nella voce. "Con gli italiani della Task force 45 ho partecipato come interprete ad operazioni contro il traffico di oppio e missioni per catturare i comandanti talebani. Alcuni li abbiamo presi", spiega l’afghano. "Speravo che gli italiani mi aiutassero - sottolinea il ragazzo - Mi sono sentito tradito, abbandonato". Soprattutto perché nel 2014-2015 abbiamo portato in Italia 117 interpreti afghani con le loro famiglie, ma il ferito e altri 34 sono stati scaricati, grazie alla formalità burocratica del contratto con la società americana. Enterzary spera ancora in un visto per l’Italia se le cose si mettessero male: "I talebani mi conoscono e se tornano a Kabul si vendicheranno. Sono della minoranza hazara, di fede sciita e ho lavorato con i militari italiani. Tre motivi per venire giustiziato".

Non solo lui, ma anche gli interpreti afghani che hanno lavorato fino ad oggi con il contingente italiano rischiano di venire abbandonati. Undici sono già stati licenziati ad Herat senza alcun nuovo piano di protezione. Gli altri 38 sono a rischio, nonostante le assicurazioni della Difesa. Stessa sorte per i 7 interpreti di Kabul mandati a casa con il pretesto del Covid. Il 15 gennaio il governo ha risposto a un’interpellanza sugli interpreti abbandonati di Salvatore Deidda, capogruppo in commissione Difesa di Fratelli d’Italia, garantendo che le domande di protezione “pregresse e future (…) saranno sottoposte alla valutazione di merito”.

Isaq conferma al Giornale dalla capitale afghana che “da marzo non lavoro, dopo aver servito come interprete gli italiani dal 2002. Ho sei figli e sono vedovo”. Senza un piede finito in cancrena era stato "arruolato" dal generale Giorgio Battisti, che si batte per garantire la protezione a tutti gli interpreti afghani. “Ho paura della vendetta dei talebani - ammette il traduttore - Mi sono rivolto all’ambasciata e all’addetto militare, che ha promesso di aiutarmi. Vorrei venire in Italia con la mia famiglia”.

Anche Meya, soprannominato “Super Mario”, ha lavorato al fianco dei nostri militari dal 2004. “Sono a casa da 7 mesi, in quarantena - spiega da Kabul - In Afghanistan la violenza aumenta con attacchi e bombe. Se gli italiani non si occuperanno della nostra protezione, i talebani ci taglieranno la testa. Ci conoscono tutti”.

Nino Sergi, presidente emerito della Ong Intersos, ha scritto un appello che pubblichiamo integralmente qui: “La protezione del proprio personale, italiano o di altre nazionalità, è un inderogabile dovere di ogni organizzazione, che sia civile o militare: un imperativo”. Zaki Koistani, addetto militare dell’ambasciata afghana a Roma, ha rilanciato via twitter l’appello del generale Battisti per accogliere gli interpreti in Italia. Anche il presidente del Comitato atlantico, Fabrizio Luciolli, invita l’Italia ad aiutare i collaboratori afghani “per evitare che diventino vittime invisibili della guerra”.

La Difesa vuole coinvolgere la Nato nella riunione sull’Afghanistan di febbraio. Battisti, però, osserva che “richiamare responsabilità riconducibili a enti sovranazionali (Onu, Nato, Ue, ecc.) appare, tutto sommato, una comoda via d’uscita per chi non intende o non è in grado d’individuare le soluzioni più efficaci”.

Al fianco degli interpreti scende in campo anche l’ex ambasciatore in Afghanistan, Enrico Di Maio: “Mi unisco all’appello confermando che è un dovere proteggerli”. Padre Giuseppe Moretti, che per anni è stato a Kabul, nella piccola chiesa dentro l’ambasciata, non ha dubbi: “Li licenziano adesso perchè inaffidabili? Per anni, però, erano fidatissimi. Quello italiano si è sempre presentato come l’esercito più umano. Dimostriamolo con i nostri interpreti”.

Anche i deputati della Lega Roberto Paolo Ferrari, capogruppo in commissione Difesa, e Paolo Formentini, vicepresidente della commissione Esteri, hanno presentato un’interrogazione al governo. “Sarebbe opportuno tutelare l'incolumità di chi ha lavorato con i nostri soldati affrontando gravi rischi - sostengono i parlamentari - mostrando nei loro confronti una generosità almeno non inferiore a quella che si riserva ai migranti irregolari che giungono nel nostro Paese da ogni parte del mondo senza particolari benemerenze”.

Uno degli interpreti a rischio di Herat, in un drammatico messaggio vocale inviato al Giornale.it, si chiede: “Abbiamo lavorato con gli italiani e sono stati la nostra famiglia. Perché ora ci abbandonano? È normale?”. E aggiunge: “Aiutateci. Non lasciateci (indietro) sotto il fuoco” dei talebani.

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