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L'Italia aiuti gli interpreti e accolga chi ne fa richiesta

Nessuno protegge gli interpreti minacciati. Il nostro Paese non può ignorarli

L'Italia aiuti gli interpreti e accolga chi ne fa richiesta

Nessuno li protegge. Non c’è giorno in cui non vengano minacciati di morte o uccisi: si tratta degli interpreti locali, coloro che operano in Afghanistan (e nelle altre aree di crisi) in supporto ai militari dei contingenti stranieri e alle organizzazioni internazionali.

È una drammatica realtà che non ha trovato particolare attenzione a livello nazionale, a meno di rare iniziative giornalistiche di coloro che sono stati sul terreno e conoscono bene la situazione, come l’articolo di Fausto Biloslavo e di Matteo Carnieletto, I leali servitori dell'Italia abbandonati alle vendette, pubblicato il 27 dicembre 2020 su Il Giornale, che ha evidenziato la condizione del personale afghano che da circa 20 anni ha operato e opera tuttora a favore delle forze italiane presenti in quel Paese.

Il problema è già emerso all’estero grazie a numerose iniziative che hanno sollevato la questione degli interpreti locali che, pur essendo spesso ignorata o sottovalutata dai Governi, viene gestita da associazioni di volontari che cercano di sensibilizzare le Istituzioni affinché siano mantenute le promesse fatte e di far sì che queste persone possano vivere tranquillamente la loro vita.

È questo un problema che mi sta particolarmente a cuore, già vissuto in Somalia nel 1993, perché ho conosciuto e operato fianco a fianco con molti di loro che si sono sempre dimostrati collaboratori leali e pienamente disponibili, malgrado le minacce cui erano sottoposti.

Non occorre dimenticare che queste persone quando la sera tornano a casa rischiano di essere soggetti (con le loro famiglie) a intimidazioni e pressioni per rivelare quello che hanno visto e saputo sui contingenti internazionali. E ciò li induce a dover mentire sulla reale attività svolta.

Quando sono arrivato in Afghanistan con le prime unità italiane nel dicembre 2001 la presenza degli interpreti si è rivelata da subito indispensabile. Non ci sarebbe stato verso altrimenti di comunicare con gli abitanti. Ovviamente l’italiano era raramente conosciuto per cui abbiamo dovuto assumere alcuni uomini (la religione islamica non permetteva, almeno all’inizio, di disporre di donne) che conoscessero l’inglese. In sostanza la traduzione passava attraverso due lingue: dall’italiano all’inglese e infine all’afghano (le lingue di quel Paese sono due, il Dari e il Pasthu, oltre ad altre meno diffuse ma sempre parlate, specie nelle zone rurali).

Durante questi vent’anni di presenza occidentale migliaia di Afghani, definiti local workers o Afghan NATO Employees, hanno prestato la propria opera in qualità d’interpreti, personale amministrativo, addetti alle pulizie o altro presso i contingenti stranieri.

Il ricorso, in particolare, a coloro che avevano competenze linguistiche e conoscenze culturali ha permesso di avere una corretta interpretazione del dialogo con la popolazione locale: erano i nostri occhi e le nostre orecchie.

Ciò che li spinge a questa vita, oltre allo stipendio (e anche all’amore per la propria Patria), è la promessa di espatriare con la rispettiva famiglia al termine dell'operazione verso le Nazioni per cui hanno svolto il servizio: speranza che non sempre viene soddisfatta; centinaia di local worker sono oggi bloccati in Afghanistan in attesa di un visto, costantemente minacciati di morte dai Talebani e dall’ISIS e dagli altri gruppi terroristici presenti nel Paese, in quanto considerati traditori e infedeli.

Molti di loro hanno già perso la vita, unitamente alle proprie famiglie, altri sono costretti a vivere nascosti, altri ancora hanno tentato la fuga non riuscendo a sopravvivere nella maggior parte dei casi.

L’organizzazione no-profit Red-T (red-t.org) ha stimato che almeno 1.000 interpreti delle forze USA sono stati uccisi in Afghanistan e Iraq, mentre l’analoga organizzazione No One Left Behind (nooneleft.org) ha catalogato l’uccisione dal 2014 di oltre 300 interpreti e familiari che hanno operato con le unità statunitensi, molti dei quali in attesa di visto per gli Stati Uniti.

Con l’approssimarsi del totale ritiro delle forze straniere, a seguito degli Accordi di Doha (29 febbraio 2020) e dell’accelerazione imposta a tale processo dal Presidente Trump, queste persone e relative famiglie, che usufruiscono ancora di un certo grado di protezione sino a quando ci sarà in Afghanistan una presenza militare straniera, si troveranno ben presto “abbandonate” al proprio destino che non si presenta sicuramente “roseo”.

Alcuni che operavano nei Comandi NATO dell’area di Kabul sono già a casa da mesi per la chiusura delle basi ai locali per il rischio covid 19 e, tra questi, coloro che lavoravano per gli Italiani i quali sono senza stipendio dallo scorso mese di giugno.

Nel documentario di Ben Anderson del 2014, The Interpreters (Vice News), il cosiddetto portavoce dei Talebani, Zabihullah Mujahid, già allora affermava che tutti coloro che proteggono o supportano i contingenti stranieri come traduttori e interpreti sono dei veri e propri traditori, degli infedeli, e per questo saranno puniti con la morte.

La recente storia relativa al cambio di sistema politico dopo una estenuante guerra civile insegna che il trapasso non è mai indolore nonostante le affermazioni concilianti dei nuovi governanti. Lo si è visto in Algeria nel 1962 e nel Vietnam del Sud nel 1975, solo per citare i casi più eclatanti.

Nel 1962, quando la Francia si è ritirata dall’Algeria al termine di un lungo e cruento conflitto, ha abbandonato a se stessi buona parte degli Algerini (gli Harkis) che avevano servito a vario titolo nell'Armée de Terre, i quali subirono con le relative famiglie diffuse rappresaglie, talvolta in circostanze estremamente crudeli (si stima che dai 30.000 ai 150.000 siano stati uccisi dal Fronte di Liberazione Nazionale).

Dopo la caduta di Saigon (1975), a causa della dura repressione del regime comunista di Hanoi, migliaia di sud vietnamiti furono eliminati e altri avviati ai “campi di rieducazione”.

Il leader dei Talebani afghani, il Mullah Haibatullah Akhunzada, ha recentemente offerto ai rappresentanti istituzionali, militari, poliziotti e altri avversari una “generale amnistia”, se rinunciano alla loro ostilità, e non essere un “impedimento all’instaurazione di un governo islamico” (B. Roggio, Taliban emir demands ‘Islamic government for Afghanistan’, Long War Journal, May 21, 2020). Sono proclami sibillini che non chiariscono e, soprattutto, non garantiscono il futuro per queste categorie di persone.

La questione della concessione dell’asilo o di protezione al personale autoctono che opera o ha operato alle dipendenze della Coalizione risale al febbraio 2013 con la progressiva riconfigurazione in senso riduttivo della missione ISAF (International Security Assistance Force). Ogni Nazione ha trattato le richieste di espatrio e/o di protezione secondo la propria politica e normativa nazionale in ragione del pericolo all’incolumità personale e dei relativi familiari, dando di norma la precedenza a chi aveva interagito con le truppe in operazioni.

Alcuni Paesi hanno accettato di rimpatriarne solo una minima parte rispetto al totale degli ingaggiati; altri si sono occupati della questione e hanno cercato di trovare una soluzione, altri ancora hanno deciso di ignorare qualsiasi richiesta e di archiviare il capitolo “guerra in Afghanistan”.

La figura dell’interprete è indispensabile e non è pensabile che questi individui rischino la propria vita (e quella delle proprie famiglie) a causa di un vuoto giuridico o di insensibilità o disinteresse politico.

Esporre il problema e parlarne a quante più persone possibili potrebbe davvero fare la differenza e far sì che questi casi non rimangano isolati ma vengano portati alla luce costituendo prima di tutto un caso mediatico per risvegliare l’opinione pubblica e fare in modo che i Governi dei rispettivi Paesi cerchino di risolvere la situazione.

Il 6 febbraio 2019 in Francia, ad esempio, è uscito il primo libro che dà voce agli interpreti in Afghanistan, i cosiddetti Tarjuman (interprete in lingua Dari): Tarjuman: enquête sur une trahison française, di Quentin Müller e Brice Andlauer, così come The Interpreters, il video documentario di Ben Anderson, raccontano la vita di persone che, nella speranza di salvare sé stessi e il proprio Paese, hanno cambiato il loro destino per sempre: collaboratori traditi ma allo stesso tempo considerati traditori in Patria.

Ritengo che un Paese come l’Italia, che fa dell’accoglienza estesa un proprio principio irrinunciabile, debba soddisfare – senza sterili ostacoli burocratici – tutti coloro che ne facciano richiesta, dopo gli opportuni controlli di sicurezza, per evitare che i local worker “italiani” di Herat e di Kabul diventino vittime invisibili della guerra afghana.

E del resto, i precedenti non mancano: la nostra Marina Militare è stata inviata nel 1979 dal governo italiano nel Mar della Cina Meridionale per svolgere un’operazione di recupero di 907 boat people vietnamiti che fuggivano dalla persecuzione del regime comunista.

Considero anche necessario curarsi di coloro che per vari motivi non intendono emigrare in Italia garantendogli, attraverso l’Ambasciata di Kabul e qualora (o quando) si presentino le condizioni di sicurezza, un’assistenza pensionistica sul modello di quella elargita ai nostri valorosi Ascari africani.

E come ha affermato il Generale David Petraeus, comandante della missione ISAF (luglio 2010 – luglio 2011) abbiamo l'obbligo di prenderci cura di coloro che ci hanno servito e servito la nostra missione e servito il proprio Paese in modo fedele e spesso con grande sacrificio. Mettono le loro vite in pericolo.

Nel tempo nascono sentimenti e solide amicizie che superano le barriere religiose e le diversità culturali. Ancora oggi sono in contatto con alcuni di questi Afghani che, per il legame venutosi a creare nel tempo, considero molto più che fratelli. Essi hanno saputo impartirmi con la loro semplicità tante lezioni di vita, e, attraverso loro, ho conosciuto questo affascinante ma travagliato Paese: un Paese che noi Afgantsy abbiamo imparato ad amare e che non dimenticheremo Mai.

Chissà se, in quest’epoca in cui l’accoglienza è invocata e auspicata in ogni dove, finanche ad accettare il rischio di accogliere e includere potenziali diffusori del virus pandemico, si potrà rinvenire questa solidarietà anche nei confronti di questi nostri fratelli, che un così alto contributo hanno dato per le nostre operazioni e che rischiano di pagare un prezzo altrettanto alto: la vita loro e dei propri cari.

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