«Eravamo cinque, ma davamo buchi a tutti»

«Eravamo cinque, ma davamo buchi a tutti»

«Con Vassallo e Merani ero il più giovane giornalista che iniziava una straordinaria avventura». Chi racconta è Franco Manzitti, firma fra le più autorevoli del nostro giornalismo. Anche lui fu della prima «formazione» del Giornale che debuttò a Genova, sotto l’ala di Montanelli. I ricordi sono tanti, un po’ di nostalgia per anni furibondi, grande soddisfazione di aver preso parte a un’esperienza professionale fra le più stimolanti.
Tu eri figlio del direttore degli industriali, papà Peppino, che diede il via all’operazione di Montanelli. Eri un... raccomandato?
(sorride) «Proprio no, molti tuttavia lo dissero, non dimentichiamo che siamo a Genova. Ero il più giovane, ma avevo la piena fiducia di Vassallo, uno che sapeva scegliere».
Com’era lo scenario dell’informazione a Genova in quel 1975?
«Non era poca cosa: intanto la corazzata (allora) Secolo XIX, poi il Lavoro socialista, anche se in fase di rallentamento, il Cittadino che stava chiudendo, poi La Stampa, L’Avvenire che raccolse i fuoriusciti dal Cittadino. Molta concorrenza davvero».
E voi del Giornale?
«Noi eravamo davvero, all’inizio, quattro gatti: Vassallo e Merani, Pippo Zerbini, Lino Martini e il sottoscritto. Due colleghi, Cesare G. Romana e Ermes Zampollo furono mandati da Milano, redazione centrale, come corrispondenti per Genova».
Il tuo compito.
«Mi occupavo di nera e di giudiziaria, Merani di politica, Vassallo di economico, Martini di bianca, Zerbini di nera. Si lavorava come negri, per far fronte alle altre testate».
Poi sei passato al «Secolo XIX» tradendo l’amico Vassallo...
«Fu nell’aprile del 1979, rimasi al Giornale quattro anni. Ricordo che, appena prima di passare sull’altra sponda, diedi due clamorosi “buchi” ai colleghi: uno sulla scoperta del testamento del padre di Bozano, l’altro sul ritrovamento di una borsa delle Br su un autobus. Per noi un successone».
A proposito di Brigate rosse, hai vissuto tutto il periodo del terrorismo...
«Fui il “cronista del terrorismo”. Subii anche dei processi da parte del Pci, non dimentichiamo che allora la città era tutta rossa, di sinistra vera. Noi eravamo la “fronda”...».
È vero che attacchi durissimi partivano alla volta di Cerofolini?
«Era il sindaco. La Dc all’opposizione...».
E Taviani rappresentava ancora qualcuno e qualcosa?
«Taviani non era più ministro, era defilato, pur rimanendo il grande tutore di Vassallo, suo pupillo da sempre».
C’erano i pretori d’assalto...
«Iniziavano a farsi sentire, non ci davano mai notizie, solo alla sinistra. Già da allora».
È vero che hai messo una parola buona per assumere Paternostro?
«Lo dicevano, lui veniva dal Lavoro, eravamo stati bambini insieme, volevamo entrambi fare il giornalista. Misi una parola buona. Ma non ne aveva bisogno, poi sostenne anche un esame durissimo con il vertice del Giornale (Montanelli, Biazzi Vergani, Ferrauto) e lo superò benissimo. Eravamo una coppia unita, nel lavoro e anche nella... paura. Sai, allora eravamo considerati dei “fascisti” (non lo siamo mai stati davvero) e una notte spararono ai vetri della redazione, mentre facevamo il turno notturno».
Nel giro di qualche anno il Giornale si affermò in modo netto...
«L’idea era nata per andare contro Il Secolo XIX che tutti consideravano di sinistra. Gli industriali volevano una loro voce. Mio padre riunì (sotto l’egida del presidente di Confindustria, Angelo Costa) molti imprenditori. E Montanelli ebbe la possibilità di sfondare in una città rossa, rossa».
La tua bella avventura al Giornale finì nel ’79... Come mai?
«Tutti noi volevamo guardare un po’ avanti, del resto i fondatori del Giornale non sono andati male. Passai al Secolo XIX e vi rimasi dieci anni, sette da capocronista, quindi mi vollero a dirigere la redazione genovese del Lavoro diventato poi Repubblica».
L’esperienza del Giornale fu comunque, mi pare di capire, abbastanza unica...
«Si, perché specie per un giovane come ero io, vivere in un fortino, in prima linea dove si affrontavano momenti di estremo impegno, era quasi “eroico”».
Come mai poterono andare d’accordo due tipi così diversi come Vassallo e Merani?
«Erano due direttori in cerca di riscatto. Molto amici, le loro nottate al «Merendero» erano mitiche. Merani era, in quel momento, un socialista deluso.

Vassallo era aggressivo e desideroso sempre di qualcosa di nuovo. Fu un’accoppiata vincente».
Torneresti a quegli anni?
«Sì, perché furono gli anni della giovinezza e, in un certo senso, dell’eroismo quasi da... “Vedetta lombarda...”».

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