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«Ergastolo e isolamento per i giustizieri di Erba»

Quattordici minuti. Basterebbero quattordici minuti per chiudere qui questo processo angosciante e senza senso, e rimandare Olindo Romano e Rosa Bazzi in galera a fare i conti con il buio senza fine delle loro anime. Sono i quattordici minuti in cui il procuratore generale Nunzia Gatto smette di parlare e lascia che a parlare sia un file audio. È una voce sottile, quasi in falsetto. È la voce dell’uomo che sta chiuso in gabbia, in silenzio, accanto alla sua donna: Olindo. In aula tace. Ma la sua voce registrata parla per lui, risuona in aula, ghiaccia i giudici popolari. E confessa tutto l’orrore di cui lui e Rosa sono stati capaci. Non c’è traccia di tormento, nella sua voce: «Come se stesse raccontando al bar Sport una partita di calcio», dirà il pubblico ministero.
Ergastolo per tutti e due, e isolamento totale per il massimo che concede la legge: tre anni. Queste sono le richieste con cui la pubblica accusa chiude la sua requisitoria al processo d’appello per la strage di Erba, 11 dicembre 2006.
Due intere giornate di requisitoria, ma davvero sarebbero bastati quei quattordici minuti: la confessione resa da Olindo pochi giorni dopo l’arresto. Una confessione che con precisione da ragioniere mette in fila dettagli che solo i veri assassini potevano conoscere. Subito dopo confessò anche Rosa. Alla fine dell’interrogatorio, si ritrovarono nella stessa stanza per qualche minuto. Vennero intercettati, e anche quella registrazione ieri risuona nell’aula della Corte d’appello: «Io sono contenta di avere fatto quel che ho fatto», dice Rosa. Ridono. «Ciao bel figo», lo saluta lei.
Basterebbe questo a spazzare via i trucchi da due lire con cui Olindo e Rosa cercano di evitare il carcere a vita. Come quando si appigliano al fatto che in casa loro non è stata trovata una sola goccia di sangue: che pure, dice la dottoressa Gatto, «è un dettaglio assolutamente insignificante, perché sappiamo che la signora Bazzi è una grandissima pulitrice, e ha avuto quasi un mese di tempo prima del sopralluogo per eliminare qualunque traccia». O quando dice - per dimostrare di essersi inventata la confessione, di avere sbagliato un dettaglio decisivo - che in realtà la povera signora Cherubini, la vicina di casa assassinata con quarantadue colpi, venne uccisa nella sua mansarda: e invece c’è la prova cruda che venne aggredita proprio lì, sul pianerottolo, come raccontavano Olindo e Rosa nelle loro ammissioni, perché il ponte della protesi dentaria è stato ritrovato proprio lì.
«Raramente abbiamo un processo con tali e tante prove», dice la pubblica accusa, e invita i giudici a «non lasciarsi suggestionare dalla nebbia buttata sulla strada maestra». «A compiere questa strage non è stato Azouz Marzouk, non è stato Castagna, non sono stati Biancaneve e i sette nani. Noi non crediamo alle favole. Crediamo alle confessioni, alle testimonianze, alle prove scientifiche». E testimonianze e prove non fanno altro che confermare per filo e per segno la confessione di Olindo e Rosa: «La loro non è solo una confessione. È una rivendicazione. Loro diventano vendicatori e giustizieri perché quelli che sapevano non facevano niente». Ovvero: perché nessuno li liberava dall'incubo di quella famiglia chiassosa, invadente, maleducata che il destino aveva scelto per l'appartamento sopra di loro. «Hanno risolto nel sangue una lite condominiale», dice l’accusa.
Ai giudici popolari, ma non al pubblico né alla stampa, su uno schermo vengono mostrate le foto dello scempio. Un solo corpo senza vita viene mostrato ai parenti delle vittime: ed è quello del cane di Valeria Cherubini, ucciso anche lui dai gas dell’incendio appiccato da Olindo e Rosa. È l’unico momento in cui al figlio della donna crollano i nervi e scoppia a piangere. A pochi metri da lui, in gabbia, dietro il muro delle guardie, gli assassini non fanno una piega. Dopodomani parleranno i loro difensori, poi la sentenza. «Perché avete ucciso anche il bambino?», chiesero durante un interrogatorio.

E Rosa: «Perché piangeva, e mi aumentava il mal di testa».

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