In fondo Eros Ramazzotti se ne sta sempre buono, mai una dichiarazione, zero polemiche, solo i dischi al momento giusto. Poi zitto. Però stavolta ha raccolto tutto il putiferio che abita nella sua anima e l’ha portato sul palco tale e quale. Enorme. Ieri sera al 105 Stadium di Rimini l’ha mostrato ai fans, che già erano esaltati perché era la prima data del suo tour mondiale. E poi si sono ritrovati davanti a una scenografia kolossal, un parcheggio post moderno che pullula di container sparsi qui e là e di barili vuoti ed è dominato da un megaschermo ad altissima definizione come vuole il manuale della perfetta rockstar. Ma non è pacchiano, anzi: è ben congegnato e lì sopra Ramazzotti ci porta della gran musica e, soprattutto, dei gran musicisti. D’altronde, specialmente in questo periodo di siccità musicale, pochi altri cantanti al mondo possono permettersi di salire sul palco con strumentisti come Michael Landau, uno che ha suonato la chitarra con Michael Jackson e James Taylor (e pure con Vasco Rossi) o Gary Novak, un marcantonio semi pelato che ha picchiato la batteria per mostri come George Benson, Alanis Morissette, Chick Corea e Ozzy Osbourne tanto per gradire. Insomma, lentamente (ma mica troppo) Eros Ramazzotti si è consacrato come musicista ormai svincolato dall’assiduo cliché del semplice confezionatore di successi radiofonici pronti a scatenare l’entusiasmo ma altrettanto veloci a evaporare. Lui, che parla poco anche sul palco, ormai è un musicista di quelli che la musica innanzitutto. Perciò le due ore del suo show volano via piene di tensione sin da quando esce da uno dei container e inizia a cantare.
Appunti e note dal suo nuovo cd Ali e radici, che è un urlo (riuscito) contro l’incomunicabilità tra le persone, specialmente tra quelle che si limitano a chattare o a spedire mitragliate di sms (un milione di copie vendute nel mondo, trecentomila solo in Italia). Neppure a farlo apposta, di fianco ha tre coriste (di fianco e non nel retroscena come di solito) che lo accompagnano e qualche volta guadagnano i riflettori come in I belong to you, che sul disco era cantata con Anastacia e stavolta dal vivo diventa più che altro un lamento d’amore, altro che vicendevole dichiarazione. Intanto, viva il rock. Ramazzotti e la sua band lo suonano impettiti come pochi, nel segno di un concerto che sfodera i muscoli specialmente nella prima parte perché poi tocca a quei classici che basta il titolo: Cose della vita, Fuoco nel fuoco, Più bella cosa, Parla con me (bellissima) e Non possiamo chiudere gli occhi. Perciò preparatevi: quando arriverà a Roma (21, 22, 24, 25 novembre) o a Milano (30 novembre, 1, 2, 4, 5 dicembre) sarà un tutto esaurito garantito e il pubblico il giorno dopo ne parlerà al bar facendo colazione. «Questo è il concerto più kolossal della mia carriera» spiega lui nei camerini, chiarendo ciò che era inutile precisare: «In ogni spettacolo cerco di mettere tutta la mia esperienza, ma non chiedetemi se sono soddisfatto: non lo sono». Sempre imbronciato (pubblicamente) e perfezionista (privatamente), Eros Ramazzotti è uno degli artisti italiani che hanno avuto un’evoluzione rarefatta ma sorprendente, spesso nascosta dal suo carattere ritroso e impaurito dalle paillettes ma oggi ormai sotto agli occhi di tutti. E poi parla chiaro. Magari grugnendo. Ma chiaro: «Qualcuno dice che i talent show come X Factor o Amici preparano i depressi di domani? Anche a Sanremo è passata tanta gente che poi ce la siamo dimenticata subito. E comunque la vincitrice di Amici, Alessandra Amoroso, è proprio brava». Oppure: «Provo ad andare a cantare a Cuba. Lo so che là c’è un regime, ma voglio andarci per la gente: ci avevo già provato a metà degli anni Novanta ma poi tutto fu bloccato».
Nel frattempo è diventato il quarantenne che l’altra sera ha battezzato il suo nuovo giro del mondo: taciturno, persino scontroso eppure sempre agitato da quel fuoco nel fuoco che è, poi, il motore di ogni vero artista.