Un errore fare distinguo linguistici sull’infanticidio

Caro dottor Granzotto, spiace che anche il Giornale si adegui sciattamente all’andazzo di massacrare la nostra bella lingua. Già in precedenza ho sottolineato «espressioni» del tipo: «Commemorato il tale nell’anniversario della sua (?) morte», «il tale ha perso entrambi (?) i genitori», «il tale ha perso l’uso delle due (?) mani», «una pallottola vagante ha giustiziato (?) un ciclista», «il tale in un raptus di follia (?)...». Da ultimo, il Giornale del 29 aprile mette nel calderone dell’infanticidio ogni uccisione di bambini, con riferimento a recenti, tragiche vicende. Per infanticidio si intende la soppressione di un neonato, ma solo ove ricorrano specifiche e ben specificate circostanze di tempo e di aspetti psicologici, nonché la precisa identità dell’esecutore e/o esecutori. Se non ricorrono tali condizioni si tratta di omicidio. E infatti la pena edittale per l’infanticidio è inferiore a quella per l’omicidio. Sono affezionato al Giornale e vorrei che, anche in fatto di lingua italiana, la nostra testata fosse una spanna sopra le altre. Chiedo troppo?
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Via, caro Passeri, non mi faccia arrabbiare. D’accordo che i genitori sono ovviamente entrambi, due sono le mani eccetera. Ma quando lei si riferisce alle «recenti tragiche vicende» e cioè alla storia del bambino abortito e sopravvissuto per due giorni a Rossano Calabro, storia non tragica, ma agghiacciante, i distinguo linguistici sono fuori luogo. Si tratta di infanticidio, punto e basta. A prescindere da pene edittali, dalle «specifiche e ben specificate circostanze di tempo» per non parlare degli «aspetti psicologici». Infanticidio, in italiano: «uccisione di un neonato». E quello era la povera creatura: un neonato, un essere venuto alla vita. Gli abortisti senza se e senza ma, i piazzisti del fai-da-te con la famigerata, letale RU486, preferiscono riferirsi a un feto, intendendolo un niente, un grumo, un «ricciolo di materia». Tuttavia la loro è una fuga dalla realtà senza scampo perché «feto» suonerà anche freddo, burocratico, ma ha la sua radice nel greco fitòs, a sua volta derivante da phyo e cioè «sono», «divengo», con forte senso di «esistenza», di «essere». No, non mi faccia arrabbiare, caro Passeri. Ma si rende conto? Una creatura, un bambino, sì, proprio così, un bambino, non tanto metaforicamente destinato - per sospetta malformazione: sarà l’autopsia a stabilirlo, ma parrebbe trattarsi di una palatoschisi, fenditura del palato che può essere corretta chirurgicamente - al cassonetto e che lasciato su un carrello metallico si riprometteva invece di vivere contando sulle sole proprie infime forze.
Non sarà il caso di Rossano Calabro e qui non si vuol certo metter sotto accusa questo o quello, però quando l’eugenetica fa capolino in sala parto c’è da rabbrividire e credo che lei concordi con me. Non mi reputo un fondamentalista «pro life» e so bene che in determinate circostanze, molto determinate, l’aborto è malauguratamente un male inevitabile. Ma avendolo la pervicace lobby abortista ridotto a una questione come un’altra - una pillola e via - era inevitabile che le ambizioni si spingessero a garantire nascite di figli non solo perfetti, ma anche confacenti. Per il mestiere che faccio ne ho viste proprio tante, caro Passeri, in pace e in guerra. Credevo d’averci fatto il callo, come si dice.

Ma penso proprio che non potrò facilmente togliermi dalla mente l’immagine, così come semplicemente esposta da don Antonio, il cappellano dell’ospedale di Rossano Calabro, di quel bambino abortito, indesiderato eppure desideroso di vivere a dispetto di tutti.

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