Aboliamo il minuto di silenzio negli stadi

Aboliamo il minuto di silenzio. Non serve a nessuno, non è rispettato, non dura sessanta secondi (Concetto Lo Bello, l’arbitro più grande di tutti, si limitava a trenta e quel tempo sembrava comunque lunghissimo ed era rigorosamente osservato, in un’altra Italia, in un altro football).
Quel minuto dovrebbe essere un rito di grande dignità e significato; ormai viene puntualmente ignorato e violentato dai fischi, dagli insulti e dagli applausi.
A Livorno il solito gruppo di imbecilli ha voluto farsi riconoscere come in altre situazioni, ha celebrato con berci e fischi la morte del tenente Alessandro Romani, ucciso in Afghanistan. Romani era andato laggiù per l’Italia, non certo per gli italiani della risma di quella squadraccia che alza i vessilli per Ernesto Che Guevara ma se ne frega di chi rischia la vita per il nostro Paese. Livorno è anche la sede del nono reggimento Col Moschin, alla quale apparteneva il tenente ucciso nell’agguato vigliacco. Come vigliacchi, nascosti, quelli del branco nello stadio Picchi.
Altrove, ieri come sempre, il teatro del calcio ha offerto quel film di un minuto con il solito sonoro, gli applausi che non c’entrano nulla con la morte, con il cordoglio, con il silenzio e il raccoglimento. Lo spettacolo ci appartiene, quasi in esclusiva. Era accaduto anche in Spagna, alcuni anni fa, a Bilbao, dove la morte di un dirigente socialista, ucciso dagli indipendentisti, era stata festeggiata dagli ultras baschi prima della partita con il Valladolid e fu censura immediata, severissima.
Ma negli stadi europei quel momento di rispetto del dolore non viene infranto da cori e battimani, in nessun altro Paese un funerale si trasforma, come davanti alle nostre chiese, in una occasione di gioia, perché questo significa un applauso, un segnale di approvazione, di partecipazione gioiosa.
I fischi di Livorno appartengono alle stesse teste, agli stessi orifizi che strillavano «una, dieci, cento, mille Nassiriya»; le stesse teste che parlano di libertà di critica e di insulto, secondo gli arruffapopolo docenti in piazza, on line e in tivvù.
Agli idioti di Livorno si sono aggiunti i fischi e i cori volgari di Udine. Per costoro e per i ribelli alla tessera del tifoso, si potrebbero organizzare trasferte low cost, in torpedone, a Kabul e negli altri siti dove il silenzio mette davvero paura, dove il «devi morire» non è una vigliacca provocazione curvaiola ma una minaccia diretta e una promessa agghiacciante.


Per questa fetta miserabile di italiani, un minuto di compassione, sessanta secondi di pena, sono loro, quelli di Livorno, quelli di Udine, quelli i moribondi. Sopravvivono, non vivono e non lo sanno. Basta con il minuto di raccoglimento, a spalti gremiti, basta con il cordoglio a richiesta. Il silenzio è una cosa troppo seria per trovare posto in uno stadio di calcio.

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