Un accordo sul filo di lana, o per meglio dire sull'orlo del baratro, ha evitato all'America il materializzarsi dello spettro del fiscal cliff («precipizio fiscale», appunto), la temuta infausta combinazione di aumenti delle tasse e tagli della spesa pubblica che rischiava di far entrare in vigore tagli alla spesa e nuove imposte per 600 miliardi di dollari a tutto danno del già malcontento ceto medio. Democratici e repubblicani hanno trovato un'intesa che prevede un aumento delle tasse ai contribuenti più ricchi e un rinvio di due mesi dei tagli alla spesa. «Né i democratici né i repubblicani hanno ottenuto tutto quel che volevano: questo accordo è la cosa giusta per il nostro Paese», ha detto Barack Obama annunciando l'intesa.
Si è trattato però di un accordo minimale, di un compromesso molto faticoso tra posizioni assai distanti tra loro. In seguito al raggiungimento dell'intesa, il Senato americano ha votato all'alba del nuovo anno con una larghissima maggioranza (89 sì contro 8 no). Ma nonostante l'accorata esortazione di Obama a non perdere tempo, ancora ieri sera (ora italiana) la Camera non aveva proceduto al voto, e anzi la maggioranza dei deputati repubblicani si rifiutava di approvare il testo del Senato chiedendo di apportarvi modifiche, nel senso di meno tasse e più tagli alle spese: una vera e propria rivolta dell'ala conservatrice contro i leader del partito più disposti al compromesso che rischia di impedire che l'accordo vada in porto.
L'intesa approvata al Senato lascia immutate le tasse per le persone che guadagnano meno di 400mila dollari l'anno e per le coppie sposate che non raggiungono un totale di 450mila; aumenta dal 35 al 40 per cento l'imposta di successione su proprietà di valore superiore ai 5 milioni di dollari; prevede che plusvalenze e dividendi siano tassati al 20 per cento e non più al 15, ma per le famiglie più ricche si arriverà - come all'epoca della presidenza Clinton - al 23,8 per cento. Il presidente Obama potrà dunque dichiarare di aver mantenuto la promessa di «chiedere solo al due per cento degli americani di pagare di più, evitando al 98 per cento delle famiglie e al 97 per cento delle piccole imprese ogni aumento delle tasse».
Ma l'evidente difficoltà incontrata dal mondo politico americano nell'affrontare il nodo del «precipizio fiscale» sta a dimostrare che l'epoca dei grandi accordi bipartisan negli Stati Uniti è lontana. A nulla sono valsi gli sforzi del presidente e dello speaker repubblicano John Boehner, che si sono spesi per un compromesso insieme con vari gruppi di senatori e comitati assortiti. Rimane il fatto che la coesistenza tra un presidente democratico e un Congresso in cui la maggioranza repubblicana è divisa tra falchi e colombe rende ardua la prospettiva di intese su questioni importanti. Obama se ne lamenta. «Avrei preferito risolvere questi problemi nel contesto di un accordo più ampio - ha detto -. Ma forse arriveremo solo per gradi a questo obiettivo».
Lo stesso presidente, dopo che finalmente era stato trovato l'accordo poi votato dal Senato, ha riconosciuto che «resta molto lavoro da fare» sulla cruciale questione del deficit di bilancio, ma ben più lunga è la lista degli obiettivi mancati. Si va dalla revisione del codice fiscale individuale all'intervento sulle aliquote per le società, dal rilancio del programma sanitario Medicare ai possibili cambiamenti nel campo della sicurezza sociale. Un cimitero di buone intenzioni, il cui posto è stato preso quasi solo dall'aumento delle tasse per i contribuenti più ricchi.
Occorre poi ricordare le scadenze incombenti: già in febbraio il congresso dovrà lavorare per elevare il tetto del debito, altra questione che vede i due fronti politici fieramente contrapposti e che nel 2011 per poco non portò al disastro i conti dello Stato, mentre in marzo sarà la volta dell'indifferibile ricerca di un'intesa a breve termine sulla spesa, in mancanza della quale il governo degli Stati Uniti si troverà in seria difficoltà per carenza di fondi. E come al solito si scontreranno le contrapposte ideologie di chi vuol aumentare le tasse e di chi preferirebbe ridurre le uscite, in una sconsolante mancanza di disponibilità al compromesso nell'interesse nazionale.
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