Del resto sono l'unico vero incubo di tutti i sovrani inglesi, da secoli. E Carlo non è ancora re, ma ha già fatto la sua incursione nel campo del temibile: le tasse. O meglio, le tasse hanno invaso la sua esistenza, non sconvolgendola, figuriamoci, però insinuando dubbi e malumori fra i parlamentari del Regno e quindi fra la stampa sempre a caccia di argomenti contro l'esponente meno amato della Casa reale e quindi, alla fine, fra i sudditi. Il problema non sono le tasse che il principe paga, ma quelle che non paga: cioè, ne paga troppo poche, il ventiquattro per cento. Il resto della popolazione è costretto a versare molto di più, il trentasei. Fra chi contribuisce di più al fisco ci sono, per esempio, i dipendenti della sua proprietà, il Duchy of Cornwall, di cui fa parte anche la famosa azienda biologica del principe.
Il Duchy of Cornwall è proprio ciò che ha fatto indignare la commissione parlamentare che si occupa di questioni fiscali e conti pubblici (è lo stesso comitato che ha spulciato i registri di Google, Amazon e Starbucks): una proprietà che esiste dal 1337, che Edoardo III creò per suo figlio ed erede al trono, e che da allora è rimasta una specie di «garanzia» per i futuri sovrani del Regno. E che perciò, di secolo in secolo e di legge in legge, è arrivata a essere considerata, appunto, una «proprietà» e non una «azienda», come ha spiegato l'avvocato del principe William Nye, al quale è toccato rispondere alle accuse mosse dai parlamentari (soprattutto laburisti). Sembra una cavillosità, ma dire che il Duchy «non è una corporation» è ciò che evita al principe di sborsare quanto i suoi sudditi: per esempio, lo scorso anno gli ha fruttato una rendita di 19 milioni di sterline, sulla quale ne ha versati 4,4 milioni di imposte. Bisogna dire che il Duchy prospera: vale, in totale, 763 milioni di sterline, oltre 879 milioni di euro e le rendite del 2012 sono aumentate del quattro per cento. E questo anche grazie alle produzioni biologiche del principe, suo pallino da anni, fonte di prese in giro da parte dei tabloid e allo stesso tempo di ammirazione, perché comunque l'erede al trono di Elisabetta ci ha visto lungo, investendo fra i primi in un settore che si sarebbe rivelato uno dei business del nuovo millennio. Però - è questo che gli contestano i laburisti - tutto questo non si traduce nell'equità delle tasse da pagare al fisco, come tutti i cittadini, e specialmente in un periodo di crisi.
L'avvocato Nye ha spiegato che c'è un equivoco molto grosso, di base: il principe, quelle tasse, le paga «volontariamente», quindi non solo non sono poche, ma bisogna pure ringraziarlo. Anzi, Sua Altezza usa la rendita (i diciannove milioni in un anno) per sostenere le spese degli impegni pubblici suoi, di Camilla e dei figli Harry e William e di sua moglie Kate e, in prospettiva, anche del bebè di corte. Si capisce che se dovesse pagare più tasse, alla fine si ritorcerebbe contro i contribuenti stessi, che in qualche modo dovrebbero pur sopperire alle necessità della famigliola.
La presidente della commissione, la laburista Margaret Hodge ha messo sotto accusa la «giustizia» del regime fiscale privilegiato di Carlo. E ha fatto notare che bisognerebbe riflettere «se rispecchi o meno la realtà del mondo di oggi».
Insomma se un'usanza nata nel quattordicesimo secolo - come ha sintetizzato un suo collega - non sia stata «trasformata in business». Fatto sta che le tasse, dopo tanti secoli, continuano a tormentare i sovrani inglesi. Perfino quando sono ancora aspiranti (da anni)...- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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